Difficile immaginare il Paese orfano di Sanremo

di Antonio ERRICO
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Lunedì 8 Febbraio 2016, 09:31

L’anno dopo quello in cui Luigi Tenco si sparò un colpo alla tempia fra i fiori e i lustrini di Sanremo, il “Corriere Mercantile” chiese a De Andrè di commentare il Festival. Il pigro Fabrizio protestò, sostenne di non esserne capace, poi si lasciò convincere da Cesare G. Romana. In uno dei tre pezzi scrisse che Sanremo era l’ultima deriva degli antichi giochi gladiatori, dove dei proletari si sventravano a vicenda per divertire la plebe e l’imperatore.

Gli anni Sessanta s’apprestavano a finire, l’Italia era diversa da quella che è, e probabilmente Sanremo era davvero così. Poi vennero gli anni di piombo, gli anni del riflusso, quelli dell’effimero, il secolo finì e ne cominciò un altro, sono cambiati i governi, i papi, i partiti, Sanremo resiste all’assalto del tempo, al mutamento delle mode, dei costumi, delle voghe, radunando oggi come radunava ieri milioni di persone d’ogni età davanti al televisore. L’anno scorso si è chiuso con una media di 10.837.000 spettatori, per uno share medio del 48,64%.

Sanremo rientra a titolo pieno fra i misteri italiani. Sarà la tradizione, l’abitudine, la circostanza che si configuri ormai come un rituale collettivo al quale si partecipa senza chiedersi il motivo, senza cercare di spiegarsi quale sia la sua ragione, sarà per trovare una rara giustificazione alla quota del canone, ma sono sessantasei anni che si costituisce come una delle più riconoscibili rappresentazioni della Nazione. Non si ricorda chi ha vinto l’anno prima, si fa confusione fra le giovani e le vecchie proposte, non credo che serva più a vendere dischi, però una spiegazione del fenomeno ci deve pur essere.

Allora si potrebbe anche ipotizzare che Sanremo continui a significare una grande evasione nazionale. Per poco meno di una settimana tutta l’Italia finge di dimenticare ogni problema pubblico e personale, la disoccupazione, il debito, l’economia in crisi. Se un’ipotesi del genere si potesse accettare, allora potremmo dire che non c’è niente di male, che il festival agisce da catarsi funzionale al recupero di un po’ d’energia. 

Nonostante la difficoltà di rintracciare una qualsivoglia relazione, anche occasionale, fra il profilo del festival e quello culturale di questo Paese, di fatto non si può negare una sorta di interdipendenza. Se infatti non si può neppure immaginare una manifestazione dello stesso tipo in un altro paese europeo, si dovrebbe fare uno sforzo considerevole ad immaginare questo Paese senza il festival. Cioè: non è che qualcuno ne soffrirebbe la mancanza, ma in un certo senso sarebbe come se ci privassero di un simbolo, come se venisse giù un monumento brutto al quale siamo inspiegabilmente affezionati. Allora non ci resta che sperare che Sanremo di anni riesca a farne cento. D’altra parte, tutto il male che si poteva dire è stato detto; a perseverare non c’è nessun diletto. D’ora in avanti non si potrebbe fare altro che dirne bene, non fosse altro che per tentare di essere un poco originali. Certo, sarebbe impresa ardimentosa e nient’affatto facile; ci si dovrebbe inventare dal niente ragioni e significati.

Forse possiamo cominciare a provare anche adesso. Allora: Sanremo fa parte della nostra memoria collettiva e individuale. Sanremo c’era una volta: in un Paese agricolo e povero, con quattro milioni di analfabeti, con la paura della guerra ancora dentro gli occhi. C’era una volta quando i contadini abbandonavano le campagne per andarsene all’estero o al Nord. Sanremo ci ha fatto il regalo di quella grande metafora del sogno che è “Volare” e non importa se abbiamo dovuto trangugiare inenarrabili ovvietà. 
Ecco, abbiamo cominciato. Ci auguriamo che per il prossimo anno si possa continuare ad incensare il grande festival dei due secoli. 
Antonio Errico
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