La letteratura e il mistero
buffo di soffiare nel vento

di Stefano CRISTANTE
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Sabato 15 Ottobre 2016, 11:11 - Ultimo aggiornamento: 12:43
Dario Fo ci ha lasciati a 90 anni e Bob Dylan ha ricevuto il Nobel che fu assegnato al primo 19 anni fa. Un attore e un cantante: definizioni talmente poco rispondenti alla grandezza artistica di entrambi da spingere a vedere un po’ più in là dei dispacci di agenzia e dei primi coccodrilli sui giornali. Il premio è stato attribuito a Fo e Dylan dall’Accademia svedese nel settore “Letteratura”, anche se entrambi sono lontani dal recinto letterario. In nessuno dei due casi la forma espressiva è stata il romanzo, né la raccolta poetica. La giuria del Nobel si muove da alcuni decenni secondo un’idea molto ampia di “letteratura”: mentre nel nostro mondo mentale lo spazio dedicato in modo specifico alla letteratura si restringe e lotta per non essere inghiottito da una spirale di perenni novità tecnologiche e dalla sensazione che tutto sia già stato raccontato, il premio Nobel annette alla letteratura territori che non hanno quel nome. In questo modo la contemporaneità può vivere piccoli sussulti per l’apparente temerarietà della scelta.

Alcuni custodi di antichi edifici letterari si chiedono infastiditi cosa c’entrino con la letteratura il lavoro di Fo e quello di Dylan, ma la risposta è arrivata da molti anni direttamente dal pubblico di entrambi, guardati e amati e ammirati dal palco, ma anche letti e goduti su carta e sulle pagine digitali della rete. Ogni volta che un artista fissa le sue parole su un foglio che prende a circolare nasce un’organizzazione del rapporto tra chi scrive e chi legge che viene chiamato letteratura. Eppure, chi ama la creatività ininterrotta di talenti come quelli degli artisti di cui sto parlando sa che non possono essere rinchiusi in un ambito letterario, e che la scrittura, con il suo disporsi ipertrofico nelle vite di coloro che lasciano un segno, è piuttosto il mare in cui essi nuotano. E i pesci, come è noto, appartengono all’acqua ma non la pensano. Di certo la vivono, perché non possono fare altrimenti, così come i narratori con la scrittura. Perché la scrittura è il materiale con cui costruiscono le loro storie, che nel frattempo cominciano a vivere nella loro voce, sia in quella stentorea e possente di Dario Fo, sia in quella graffiata e indelebile di Bob Dylan. La verità è che entrambi sono e sono stati scrittori oltre che performer, ma il loro curriculum è da decatleti dell’arte: pittori, attori cinematografici, sceneggiatori, bozzettisti, registi, scenografi. È sufficiente spulciare i materiali presenti in Internet per avvedersene: il contributo di entrambi all’arte è avvenuto in più campi, mescolando il visivo con il performativo, il poetico con l’esistenziale. Persino nella moda hanno avuto un ruolo importante, trasmettendo il morbo dell’unicità: il maglione scuro di Dario Fo è diventato la sua sineddoche e la trasandatezza di Bob Dylan, portata con invariata naturalità, ci ricorda che jeans e giacca di pelle non vanno mai confusi con la sciatteria.

Artisti multimediali entrambi, dunque: un’espressione non elegante eppure vera. Per Dario Fo, che non potremo più andare a vedere a teatro ma che potremo incontrare mille volte sui nostri tanti schermi, si apre ora un’epoca di riscoperta e di scandaglio. La sua autonomia artistica e la sua smania di ricercare in ogni anfratto delle culture popolari di ogni epoca le gemme da inserire nella trama di un moderno e rutilante teatro “del popolo” sono lì a dimostrare la sua originalità di erudito giullare e di filologo non-accademico. Tuttavia la sua intera vita artistica senza il sodalizio con Franca Rame non sarebbe giunta alla profondità di alcuni lavori testuali e poi performativi: la ricerca della verità delle cose portata avanti dall’attrice /scrittrice ha costituito una spinta continua a mantenere sulla terra il tracimante funambolismo espressivo di Dario Fo, e a trasformare in prassi possibile ciò che la pulsione per la libertà rendeva semplice desiderio. Franca Rame era parte fondamentale del flusso d’energia che condivideva con Dario Fo. La sua postazione leggermente arretrata rispetto all’esuberanza del marito non toglie che il Nobel alla letteratura vada considerato un riconoscimento ad entrambi.

La notizia del Nobel (anche) a Bob Dylan ha fatto felici molti, tuttavia è legittimo chiedersi a “quale” Bob Dylan abbiano rivolto il loro pensiero i gaudenti. A lui si attaglia bene una frase di Andrea Pazienza: “Io sono una moltitudine”. La sua personalità artistica è cambiata nel corso del tempo, e ogni mutazione è stata seguita con clamore dalla stampa, non solo specializzata. Eppure in un mondo accelerato come il nostro persino un mostro sacro come Dylan viene da molti ricordato solo per una manciata di versi e di note. Ma c’è nella sua produzione un intero mondo che tanti, specie tra i giovanissimi, ignorano. Un mondo in grado di sfamare ogni moltitudine, collettiva o interiore, passando dalle ballate sull’America razzista degli anni ’60 all’America dolente dell’11 settembre e anche oltre, ai giorni nostri, togliendo la polvere dalle canzoni di Frank Sinistra e ricreandole sotto il cielo del nostro tempo. Le foto dei primi anni ‘60 consegnano allo sguardo un ragazzo dall’aria stralunata e dolce, leggero come una piuma ma consapevole dei propri voli e dei propri rischi, disposto a rinunciare a un pubblico consolidato per intraprendere nuove strade. Quando i Beatles fecero il loro primo tour negli Stati Uniti, incontrarono Elvis Presley e poi Bob Dylan. Elvis fu altezzoso, divorato da un narcisismo maniacale e invidioso. Dylan ascoltò per un po’ i loro discorsi entusiastici e sopra le righe, e poi sorrise. Parlò a lungo con tutti, ma legò soprattutto con Lennon, che gli divenne amico. John si rendeva evidentemente conto che loro erano in quattro, e che anche Dylan lo era. A differenza di Elvis, quel ragazzo magro e timido era più persone, più artisti, più musiche, più letterature. Quel ragazzo era un’intera band, e per giunta rivoluzionaria.

La scomparsa di un artista o un suo grande riconoscimento provocano emozioni forti e pensieri che riescono a rompere la violenta monotonia delle notizie che quotidianamente ci assalgono, e dentro cui siamo immersi: ci viene offerta la possibilità di pensare con improvvisa intensità al senso delle cose e della vita stessa. È successo quest’anno già con David Bowie e Prince, artisti morti prima del tempo. Quando un gigante come Dario Fo muore a 90 anni non siamo preda della disperazione, ma invasi da subitanea nostalgia. Il Nobel a Dylan è invece una scheggia di felicità pura. Non resta che riascoltarli e ristudiarli, mescolando la nostalgia con la felicità di una continua riscoperta, mentre le pietre continuano a rotolare, la risposta a soffiare nel vento e l’intrigo più fosco diventa, per magia, un buffo mistero.
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