I ponti crollano perché oggi ignoriamo la lezione di Giolitti

di Giuseppe BERTA
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Venerdì 10 Marzo 2017, 17:10
Dinanzi alla notizia del crollo del cavalcavia sulla A14, che richiama alla mente un altro tragico crollo recente, quello del ponte nei pressi di Lecco, è probabile che molti italiani si siano domandati che Paese stia ormai diventando il nostro, dove eventi simili si susseguono, a breve distanza di tempo, senza che si creino un’attenzione e una cura maggiori, quanto meno a motivo delle vittime che ogni volta provocano. L’Italia rivela una drammatica carenza nella realizzazione e più ancora nella manutenzione delle infrastrutture, da cui dipende in buona misura la qualità della vita quotidiana di una nazione. Se ponti e strade non danno sicurezza, se le condizioni elementari che regolano la normalità dell’esistenza collettiva sembrano a volte venir meno, come si pensa di ridestare quel grado di fiducia soddisfacente da parte dei cittadini che è poi quanto tiene assieme un paese?

Sono queste le domande della cittadinanza a cui nessuno sa più fornire le risposte e che accentuano la sensazione di anomalìa che sempre più spesso si prova guardando alla situazione dell’Italia. Pare non esserci rimedio davanti a una catena di catastrofi, grandi o circoscritte, davanti a cui non si riesce a reagire. E non basta lamentare, come si fa spesso, che la manutenzione delle infrastrutture è dovuta a una cronica mancanza di fondi. Perché non è così: non è vero che tutto dipende da livelli inadeguati di investimento. Non è raro che gli investimenti si facciano, ma che poi non vadano a buon fine. Ce li ricordiamo gli episodi di strade appena collaudate che franano rovinosamente poco dopo essere state inaugurate? È successo non molto tempo fa in Sicilia. A fatti come questi seguono in genere promesse solenni di scoprirne le cause, ma subito se ne perde la memoria, salvo parlarne dopo qualche altro disastro che solleva nuovi interrogativi accanto a quelli vecchi, rimasti insoluti.

Nell’Italia di oggi manca una politica delle infrastrutture. Nel senso che, se alcune opere vengono realizzate, la loro qualità si rivela poi quanto meno discutibile, mentre l’incuria nella manutenzione peggiora la condizione di strade, ponti, trasporto locale e così via. Così, si citano con una punta di orgoglio i risultati raggiunti nella creazione dei collegamenti ferroviari ad alta velocità, ma si trascura di garantire alle linee regionali (proprio quelle che utilizzano ogni giorno milioni di pendolari) un grado di efficienza e di qualità minimamente accettabile. Sembra che ogni volta il nostro Paese riveli la propria insufficienza di fronte a ciò che, nel mondo odierno e soprattutto fuori dei nostri confini, viene considerato uno standard decente di civiltà.

Eppure, nella nostra storia ci sono testimonianze indubitabili della nostra capacità di realizzare infrastrutture. Non è il caso di chiamare in causa le strade e gli acquedotti dei nostri antenati romani di due millenni fa; basta ricordarsi dell’Italia che nel periodo del boom seppe costruire in tempi rapidi, con efficienza e buona qualità di esecuzione, l’Autostrada del Sole. Perché queste competenze sono andate smarrendosi nel mezzo secolo di storia che ci separa da allora? Che cos’è intervenuto nel cuore della nostra compagine pubblica perché dobbiamo oggi guardare con un senso d’impotenza a ciò che è avvenuto ieri nelle Marche?

Sono domande che inevitabilmente si sommano ad altri interrogativi. Perché non sono stati consegnati prefabbricati che erano stati promessi ai terremotati l’estate scorsa? Perché i mesi passano e la loro condizione non cambia? Perché l’Alitalia non riesce, da anni e anni, a sottrarsi a uno stato che è di fatto fallimentare? Che cosa bisogna ancora attendere perché si decida se ha ancora senso che la mano pubblica si impegni nel trasporto aereo o se non sia invece il caso di uscirne definitivamente? Qual è la maledizione che fa sì che noi perdiamo nei settori dove invece nel resto del mondo si guadagna e non siamo capaci di assicurare un analogo livello di funzionamento?

Sono questioni che ci riportano continuamente a un nucleo di fondo, quella della inefficacia del nostro sistema amministrativo. Di solito, la nostra attenzione viene catturata dal quadro politico che condiziona il funzionamento amministrativo e tendiamo a focalizzare il nostro interesse sui fenomeni più degenerativi, a cominciare da quello della corruzione. Posto che il rapporto tra politica e amministrazione costituisce uno dei più delicati, bisognerebbe cominciare a scavare nelle ragioni che hanno prodotto il degrado della vita amministrativa all’origine delle tante manifestazioni di malfunzionamento dell’apparato pubblico e delle opere che da esso dipendono. Probabilmente, la strada giusta è quella che conduce a responsabilizzare l’amministrazione, restituendo ad essa la dignità e l’autonomia che l’invadenza della politica in tutti i versanti della vita collettiva le ha sottratto.
Guardando ancora alla storia, viene da pensare che se un uomo come Giovanni Giolitti, un secolo fa, fu così efficace nell’indirizzare lo sviluppo del Paese fu forse perché era giunto alla politica relativamente tardi. Prima di entrare in parlamento era stato segretario generale della Corte dei conti: seppe governare bene perché conosceva bene il modo d’essere della pubblica amministrazione e quindi si sapeva rapportare ad essa, considerandone l’autonomia e valorizzando le qualità professionali della burocrazia. È una lezione che si dovrebbe riprendere.
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