Codice degli appalti: quel pasticcio che riduce i poteri di Cantone

Raffaele Cantone
Raffaele Cantone
di Pietro QUINTO
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Giovedì 27 Aprile 2017, 14:12 - Ultimo aggiornamento: 14:19
Al di là della sua importanza settoriale e non solo, ma soprattutto della sua incidenza sulla dinamica dei fattori economico sociali, la vicenda della riforma legislativa degli appalti rappresenta un esempio emblematico di come non si dovrebbe esercitare la funzione legislativa e dimostra la radicalità di un male atavico che affligge il sistema Paese: una disarticolazione dei procedimenti legislativi, l’ipertrofia normativa, la difficile leggibilità ed applicabilità delle leggi.

La notizia di attualità è che è stato varato il decreto correttivo del Codice degli Appalti pubblicato il 19 aprile del 2016 in attuazione della scadenza fissata dalla delega, che prevedeva entro un anno l’adeguamento della riforma alla luce delle esperienze e delle necessità pratiche riscontrate nella prima applicazione della disciplina codicistica. Si è trattato di un lavoro di non poco conto che sconta però una serie di errori metodologici derivanti da un vizio originario: la frettolosa pubblicazione di un nuovo Codice per rispettare il termine del 18 aprile per il recepimento delle tre Direttive comunitarie del 2014 nella specifica materia.

Si scelse di unificare l’atto legislativo di recepimento con una più complessiva riforma codicistica di settore. Il risultato è stato il mancato rispetto del termine del 18 aprile, perché il Codice fu pubblicato il 19, con l’ulteriore forzatura dell’immediata entrata in vigore di un Codice di 220 articoli. Si rilevò all’epoca che nell’esperienza legislativa non si era mai verificato che un Codice entrasse in vigore lo stesso giorno della sua pubblicazione senza alcun periodo di vacatio legis e l’Adunanza del Consiglio di Stato evidenziò criticamente che un “Codice”, in quanto tale, richiede un periodo adeguato di ricognizione delle norme e della giurisprudenza, ricostruzione, confronto con gli operatori del settore, al fine di confezionare regole chiare, univoche e ben coordinate. Nella realtà - sottolineò la Commissione normativa di Palazzo Spada - «il testo del Codice risente dei tempi ristretti, e presenta pertanto inevitabili incoerenze sistematiche, refusi, disposizioni non ben coordinate, imprecisioni lessicali e di recepimento, essendo mancata verosimilmente, una pausa di ponderazione e rilettura dell’articolato».

A conferma di ciò il 15 luglio del 2016 fu pubblicato un «copioso» avviso di rettifica riguardante numerose norme (circa la metà dei 220 articoli del nuovo Codice). Contemporaneamente emergevano (e tutt’ora permangono) le difficoltà operative della riforma e della sua disciplina transitoria con la previsione della sopravvivenza delle norme regolamentari previgenti in attesa della emanazione degli atti attuativi dei nuovi istituti. Il Codice ha infatti abbandonato il modello del regolamento unico prevedendo una molteplicità di strumenti normativi e amministrativi.

Sul punto è tutt’ora attuale il dibattito sulla effettiva natura ed in qualche caso sulla legittimità di siffatti strumenti, inquadrati tra atti a contenuto regolamentare in senso proprio e direttive di una Autorità amministrativa. Sta in fatto che rispetto alla previsione di un Codice snello ed alla ricerca di un modello attuativo flessibile, nella esperienza applicativa, in disparte i 220 articoli del nuovo Codice, che sviluppa 1355 commi e 25 allegati, ed alla previsione di 53 atti attuativi (divenuti 55 con il correttivo), ad oggi, cioè a distanza del fatidico anno dalla sua pubblicazione, risultano emanati solo undici degli atti attuativi espressamente nominati dal Codice.

Per effetto di tutto ciò non si può di certo affermare che la riforma degli appalti abbia avuto una efficace applicazione, nel mentre la carenza di una ordinata transizione tra la previgente e la nuova disciplina ha inciso negativamente sul mercato dei lavori pubblici con una diminuzione dei bandi e con una preoccupante crisi del settore delle opere pubbliche.

In questo quadro viene alla luce il decreto correttivo del Codice che sconta l’impossibilità di assolvere alla sua funzione di verifica degli effetti della riforma, non ancora decollata, e, quindi, delle necessarie integrazioni e correzioni, quanto meno in termini di completezza e di puntuale soddisfacimento. Si è quindi verificato quanto segnalato nel 2016 dal Consiglio di Stato nel parere reso sul Codice: «i correttivi conseguono un effetto utile se intervengono dopo un ragionevole periodo di applicazione pratica, necessario per una compiuta verifica di impatto della regolamentazione. Nel caso di codificazioni settoriali, specie se, come in questo caso, vi sono numerosi regimi transitori, un periodo ragionevole di osservazione è almeno biennale. Sicchè, l’obiettivo del correttivo rischia di essere vanificato se viene previsto un periodo troppo breve».

Ed è per queste ragioni che lo stesso Consiglio di Stato nel nuovo parere reso sul decreto ha espresso l’auspicio che il Governo possa sensibilizzare il Parlamento in ordine a un allungamento da uno a due anni del termine per i correttivi. Ma tutto ciò varrà per il futuro.

Nell’attualità non si vuole affermare l’inutilità del decreto, che, indubbiamente, serve a risolvere evidenti criticità e, ad introdurre alcune semplificazioni ed urgenti aggiustamenti. E, tuttavia, il semplice dato numerico e cioè la consistenza del provvedimento correttivo, cresciuto fino a 131 articoli, che comportano un centinaio di correzioni sui 220 articoli del Codice, dimostra, secondo il ben noto adagio, che la fretta (quella del 19 aprile 2016) non è stata buona consigliera. Ad avvalorare quanto sin qui sostenuto v’è la vicenda dell’articolo 211, secondo comma, del Codice, la cui abrogazione in sede di decreto correttivo (avvenuta all’insaputa), ha suscitato polemiche e proteste, con evidenti strumentalizzazioni politiche.

Occorre un breve riepilogo. La norma, inquadrata nei pareri di precontenzioso dell’ANAC con funzione deflattiva del contenzioso, attribuiva all’Autorità un potere di «raccomandazione» vincolante: ANAC era legittimata ad “invitare” la stazione appaltante ad agire in autotutela, rimuovendo atti ritenuti illegittimi. Tale previsione era stata contestata dall’Adunanza del Consiglio di Stato nel parere del 2016 in termini di compatibilità con il sistema delle autonomie e per la eccessiva ingerenza di ANAC rispetto alla discrezionalità dell’autotutela. Per evitare ciò il Consiglio di Stato aveva proposto una riformulazione della disposizione in chiave di controllo collaborativo, ispirata alla disciplina dettata dall’art. 21 bis della legge n. 287/1990, riconoscendo anche ad ANAC quella legittimazione processuale conferita dalle norme citate all’Autorità garante della concorrenza e del mercato. Il parere del Consiglio di Stato era stato del tutto disatteso ed il testo dell’art. 211 era rimasto inalterato.

Su tale disposizione, chi scrive ha svolto numerosi interventi paventando l’effetto distorsivo dell’intervento «surrogatorio» dell’ANAC. Ciò perché, per un verso, i concorrenti incisi da preclusioni processuali avrebbero potuto sempre invocare la «raccomandazione» vincolante di ANAC per sollecitare la rimozione in autotutela da parte della stazione appaltante degli atti non tempestivamente impugnati, e, per altro verso, perché si sarebbe comunque creato un nuovo contenzioso parallelo e aggiuntivo con riferimento all’esercizio (obbligatorio) dei poteri di annullamento d’ufficio in violazione dei limiti e dei parametri fissati dagli articoli 21 – opties e 21 – nonies della legge 241/90.

Ma anche in questo caso la improvvisazione legislativa sta dando i suoi frutti (negativi). La soppressione del secondo comma dell’art. 211 è stata letta ed interpretata come un “attentato” alla potestà di intervento salvifico di ANAC e del suo Presidente. Sicchè, è stato diffuso da Palazzo Chigi un comunicato in cui si assicura, ancor prima della sua pubblicazione ed operatività, una «correzione» del «decreto correttivo» del Codice degli Appalti, non precisando se si tratterà di un mero intervento ripristinatorio o se, in modo più razionale, si terrà finalmente conto dei rilievi tecnici del Consiglio di Stato e del sovraccarico di compiti ed attribuzioni di ANAC, che incidono negativamente sulla sua identità ed efficacia operativa.

Si conferma così un metodo di legislazione umorale, mentre rimane il dubbio se «errore tecnico» fu la previsione di un potere di raccomandazione extra ordinem o errore tecnico sarà la reintroduzione di una siffatta potestà.
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