Doppiare o non doppiare: il dilemma del cinema

di Luca BANDIRALI
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Martedì 24 Gennaio 2017, 13:19
Per lo spettatore italiano, vedere un film di qualsiasi provenienza e area linguistica in una sala cinematografica italiana implica tassativamente ascoltarne la versione nella nostra lingua nazionale, con l’effetto per noi niente affatto bizzarro di sentire Brad Pitt parlare in italiano, e Marion Cotillard rispondergli correttamente nella stessa lingua. Il tutto nella piena consapevolezza che quelle che ascoltiamo non sono le voci di due attori poliglotti, ma appartengono a due “attori vocali” italiani, professionisti del doppiaggio. La lunga consuetudine culturale con i film doppiati, sia al cinema che in televisione, occulta l’origine di questa pratica, così come dissimula il confronto anche al presente con le pratiche di altri paesi. La consuetudine nasce dal fatto che in Italia i film stranieri sono sempre stati doppiati, fin dall’avvento del sonoro, alla fine degli anni ’20 del Novecento: ma non era una scelta obbligata, o per lo meno ci sarebbero state due opzioni. La prima era sottotitolare, traducendo i dialoghi originali: questo si fece, per esempio, nei paesi nordeuropei. Perché in Italia si decise invece di doppiare, che era un’operazione molto più costosa rispetto alla sottotitolazione? Presto detto: anzitutto perché, stando alle fonti storiografiche più attendibili, nel 1931 ancora un italiano su cinque era completamente analfabeta, dunque non sarebbe stato in grado di leggere i sottotitoli sullo schermo. La seconda ragione è legata alla politica culturale fascista: nel 1929, a due anni dall’introduzione del sonoro, il governo di Mussolini proibì la circolazione di film che non fossero parlati in italiano e nel 1934 si arrivò a bandire tutte le parole straniere, in qualsiasi contesto; ricordiamo che il doppiaggio veniva utilizzato in quegli anni anche per modificare ideologicamente alcuni dialoghi. Delle origini c’è poco da dire: non fu certo il doppiaggio dei film il danno più grave fatto dal fascismo a questa nazione, anzi lo si potrebbe rubricare tra i suoi peccati veniali ed emendabili. Ma perché non si è pensato successivamente di buttare questa pratica alle ortiche?
Non c’è mai stato un dibattito forte su questo argomento, ma proviamo a sintetizzarne le posizioni. I sostenitori del doppiaggio affermano che in fondo si tratta del male minore: leggere il sottotitolo distrae l’attenzione dallo schermo intero per focalizzarla su una sola parte, dunque fa perdere proprio lo specifico artistico del cinema, che è l’immagine; inoltre, paragonano il doppiaggio alla traduzione letteraria, anch’essa una forma di compromesso (“dire quasi la stessa cosa”, per citare Umberto Eco), universalmente accettata. I detrattori sostengono invece che togliere la voce a un attore è tradirne l’essenza, sarebbe come sostituire il suo volto; ricordano che il cinema è un’arte audiovisiva, in cui il sonoro conta tanto quanto l’immagine, dunque cambiare la voce di Marlon Brando nel Padrino equivale a sostituire la voce di John Lennon in un disco dei Beatles, mettendoci Gianni Morandi. Il doppiaggio poi è un particolare tipo di traduzione legata all’obbligo del sincrono labiale: una frase breve in inglese può richiedere una versione italiana più lunga, ma il doppiatore è costretto ad adattare la frase rispettandone la durata al millisecondo, anche se si sacrifica il senso. Senza addentrarsi in ulteriori considerazioni estetologiche, va constatato che nel 2017 andare in una sala cinematografica di Milano o di Lecce e vedere un film doppiato è più surreale che in passato, dati gli enormi cambiamenti dello scenario mediale.
Oggi sul web il pubblico più giovane guarda in streaming film e serie tv sottotitolati da comunità di appassionati. Non si tratta di nicchie poco numerose: lo dimostra il fatto che Sky sempre più spesso mette in onda le serie di punta del proprio catalogo in contemporanea con gli Usa, sottotitolando gli episodi in attesa della versione doppiata; fermo restando che sia le pay tv che le Ott come Netflix e Amazon propongono di norma l’opzione dei sottotitoli su tutti i prodotti. Ci sono poi altre nicchie, costituite dal pubblico adulto e acculturato che frequenta i festival, da Venezia a Specchia, ed è avvezzo alla fruizione delle versioni sottotitolate. Il circuito commerciale del cinema, rispetto all’avanguardia neo-televisiva e a quella dei festival, sembra arretratissimo, incapace di cogliere gli stimoli che arrivano da nuove fasce di pubblico. Non considerare affatto questi segmenti, soprattutto in prospettiva, la dice lunga sulla lungimiranza degli operatori di un circuito che non a caso fatica a sopravvivere.
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