Tra Usa e Cina partita a scacchi per l’egemonia

Tra Usa e Cina partita a scacchi per l’egemonia
di Stefano CRISTANTE
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Sabato 1 Aprile 2017, 20:00
L’uomo più importante del mondo è nato nel 1946, ha un nome universalmente conosciuto - Donald Trump - ed è Presidente degli Stati Uniti d’America. Le sue mosse sono monitorate ogni giorno da migliaia di testate e di addetti ai lavori. Il secondo uomo più importante del mondo è nato nel 1953, ha un nome pressoché ignoto in Occidente,  Xi Jinping. È segretario generale del Partito comunista cinese (dal 2012) e Presidente della Repubblica Popolare cinese (dal 2013).

La differenza di notorietà (in Occidente) tra i due pesi massimi mondiali è senz’altro indicativa degli equilibri in campo, ma non è sufficiente per cogliere la tendenza dominante del nostro tempo. Il titolo di un libro del politologo brasiliano Alfredo G. Valladao del 1994 affermava con determinazione: “Il XXI secolo sarà americano”. È ancora diffusa questa certezza? Nell’organizzazione mediatica generale a epicentro televisivo digitale, Trump è al centro della scena. Xi Jinping è iper-mediatizzato in Cina, ma si offre molto poco ai media occidentali. Delle mogli e dei vezzi di Trump si sa tutto, di Xi Jinping si sa che è sposato con una cantante e che la figlia frequenta Harvard. È considerato un Taizi, un “principe rosso”, ossia un appartenente al gruppo dei figli e dei nipoti di coloro che guidarono la Grande Marcia maoista conclusa vittoriosamente nel 1949. Ma già queste sono cose che sanno in pochi, fuori dalla Cina.

La corazzata Trump veleggia in questo squarcio di crisi della globalizzazione, sospinta, inevitabilmente, dagli stessi media da lui maltrattati: è troppo presto per dire se siamo in presenza di seri sintomi di incapacità di governo (come sembrerebbe di cogliere nel ritiro della mozione anti-Obamacare, che Trump ha dovuto ingollare per evitare una bocciatura parlamentare), oppure se il massiccio miliardario si rivelerà in grado di gestire con successo l’aggressività politica di cui è portatore. Xi Jinping governa un Paese di più di 1 miliardo e 350 milioni di persone. Gli abitanti degli Stati Uniti sono circa 325 milioni. Il divario è immenso, non scalfito dalle furiose politiche di contenimento delle nascite adottato in Cina per decenni. Inoltre, nel corso del tempo la finanza cinese ha acquistato una quota importante del debito pubblico americano. La risposta di Trump è il neo-protezionismo, con l’inserimento di uomini di governo dalla fama non propriamente pacifista e dalla bassa o nulla reputazione intellettuale.

Questa politica cozza contro l’espansione commerciale cinese, sorretta da un numero di aziende e di manager che non hanno più alcun legame con la parola “comunismo” (né “socialismo”) e che vedono nella mondializzazione dell’economia un volano di crescita. A Davos, al Forum economico mondiale (gennaio 2017), con parole che sarebbero sembrate assurde solo tre decenni fa, Xi Jingpin, in una delle sue rare apparizioni pubbliche in Occidente, ha così ammonito: “Il protezionismo, il populismo e la de-globalizzazione sono in crescita, e questo non va bene per una più stretta cooperazione economica a livello globale”. Saltando alcuni passaggi, questa frase rivela che in Cina il sistema politico può ancora essere regolato dall’organizzazione dispotica del Partito unico e sulla narrazione di una grande uguaglianza interna alla nazione più popolosa del mondo, ma il sistema economico sta correndo saldamente all’interno dei binari capitalistici. Paradossalmente, è il segretario del Partito comunista cinese a individuare tre fenomeni dannosi alla “più stretta cooperazione a livello globale” (cioè al capitalismo internazionale), il primo dei quali è proprio il protezionismo. Le conseguenze di un’eventuale guerra commerciale dichiarata tra Usa e Cina potrebbe avere conseguenze imprevedibili, ad esempio sui salari cinesi, i cui parchi aumenti hanno finora fatto sì che le élite del Partito e delle imprese non dovessero fronteggiare una vera ondata di insoddisfazione popolare. Oppure sui salari americani, visto che le merci americane potrebbero subire lo stesso trattamento da parte delle autorità cinesi.

In un campo però – almeno per ora – la tendenza premia gli Stati Uniti. Questo campo è l’immaginario collettivo. Hollywood ha resistito alla crisi, e mantiene le sue posizioni nel cinema mainstream e nel nuovo regno audiovisivo delle serie televisive, mentre si espandono gli imperi digitali di Google, Facebook e Amazon. Proprio i nomi di questi tre colossi indicano però una dominazione sottoposta al rischio insito nel protezionismo: l’organizzazione alternativa dell’Altro. In Cina non è che i social non ci siano: il fatto è che i cinesi preferiscono quelli che parlano mandarino fin dall’origine, come Baidu (il motore di ricerca tipo Google), RenRen (tipo Fb), Alibaba (tipo Amazon). L’autoctono quasi sempre si arrende alla colonizzazione, ma non quando ha il vantaggio di contare su una comunità di quasi un miliardo e mezzo di persone.

Siamo perciò in una situazione transitoria, in cui le grandi immagini e le grandi icone sono ancora occidentali (basta pensare alla moda) ma in cui la ricostruzione di un percorso mediatico dal basso tramite social sta cominciando a offrire nuovi miti e nuove stelle non -occidentali. Tutto ciò indirizza verso altre strade culturali globali, che ci suggeriscono che nel nostro pianeta potrebbero svilupparsi immaginari collettivi notevolmente diversi, e in cui i valori di fondo potrebbero continuare a non essere condivisi. Il pianeta è già stato in questa condizione, allorché i viaggiatori medievali europei si spingevano fino nel cuore dell’Asia per scoprirne una civiltà perfettamente funzionante ma non affine a quella occidentale.

È ancora così? I social network in mandarino sembrerebbero confermare, ma anche la “forma” social network è una forma occidentale, e lo scambio tecnologico è continuo, travolgente, inarrestabile. Le stelle dell’America sono poco luminose di questi tempi, tanto che Trump ha dovuto rivolgersi alla volontà di rivincita dei delusi dalla globalizzazione con il messaggio della passata grandezza da riconquistare. Può darsi che riesca a fare la voce grossa e ad essere il primo presidente del rilancio americano. Potrebbe però essere anche una monade solitaria in un processo assai più complesso di riequilibrio del mondo, dove le cose mutano di sostanza senza provocare sussulti nelle civiltà. Un esempio? Il presidente dell’Inter è un miliardario cinese. Può darsi che il XXI secolo resti, almeno culturalmente, “americano”, ma solo se i cinesi ne vedranno la convenienza strategica.
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