Il gioco delle parti tra Salvini e Berlusconi

di Alessandro CAMPI
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Venerdì 10 Marzo 2017, 17:05
Tra osservatori e politici di sinistra c’è chi comincia a sospettare che quello tra Silvio Berlusconi e Matteo Salvini sia, più che uno scontro politico reale, un abile gioco delle parti. Il poliziotto buono e quello cattivo, il moderato e il populista, l’amico degli americani e l’amico dei russi, quello che fa finta di voler andare con la sinistra moderata e quello che fa credere che potrebbe allearsi coi grillini.

Ma alla fine, quando si sarà a un passo dal voto, il centrodestra si ricompatterà a dispetto di tutte le attuali divisioni. Per quanto azzoppata, la leadership toccherà nuovamente al Cavaliere. Salvini (insieme alla Meloni) tornerà nei ranghi, magari sbuffando. E chissà che avendo nel frattempo recuperato la diaspora centrista non ci scappi anche di vincere le elezioni, specie se gli avversari M5s e Pd continueranno a farsi del male da soli. I primi sgovernando (Roma) e straparlando. I secondi a furia di litigi e scissioni, di insulti e sgambetti (anche giudiziari?). Può darsi in effetti che le cose possano veramente andare così. Già in passato Berlusconi e Bossi (come anche Bossi e Fini, o Fini e Berlusconi) si sono prima alleati e poi clamorosamente divisi, per non parlare delle reciproche accuse e dei reciproci sospetti, salvo tornare insieme nei momenti decisivi durante i vent’anni che è durata la loro storia. Anche se quel modo di stare insieme e collaborare, specie quando il centrodestra è stato al governo, non ha lasciato negli italiani un gran ricordo. C’è poi sempre da considerare l’argomento tutt’altro che secondario che se due forze politiche ancora oggi collaborano organicamente a livello periferico, dalla Lombardia alla Liguria al Veneto, passando per decine d’amministrazioni locali, non si capisce (e per primi non lo capirebbero gli elettori) perché non debbano o possano farlo anche a livello nazionale. D’altro canto la politica è anche un gioco di ruolo, vive di mosse tattiche e ripensamenti strumentali, di parole ultimative che nessuno rispetta, di proclami che durano un giorno, di promesse mancate e di accordi dell’ultima ora stretti col nemico del giorno prima. Non ci sarebbe dunque nulla di strano se effettivamente Lega e Forza Italia, per reciproca convenienza, trovassero nuovamente un modo per convivere quali che siano le dure e pessime cose che oggi dicono l’uno dell’altro in pubblico e in privato i rispettivi leader. Ma quello che è possibile in teoria e in astratto non è detto che poi si verifichi nella vita reale. Così come non si può ridurre il tatticismo (che in politica è persino un’abilità) al vivere di espedienti e di piccole furbizie. Ci sono anche momenti e situazioni in cui dalle parole che si usano discendono comportamenti necessariamente coerenti. O nei quali si finisce per diventare prigionieri della propaganda che si utilizza. Il che significa che stavolta la divisione che si è creata nel campo politico-ideologico di quello che fu il centrodestra berlusconiano da una parte il populismo sovranista cavalcato dalla coppia Salvini-Merloni, dall’altro il popolarismo liberale rivendicato dal Cavaliere deve essere valutata sul serio e non considerata solo un modo per confondere le acque agli avversari. Il problema è che rispetto al recente passato il mondo (e con esso l’Italia) è davvero molto cambiato. aumentata l’instabilità sociale e sono cresciute le sacche di disagio economico.

La paura del futuro è divenuta un sentimento collettivo diffuso. Nel profondo della società covano una rabbia e un senso di frustrazione che sono un alimento straordinario per i demagoghi e gli avventurieri che se ne impossessano politicamente. D’altro canto, la sfiducia nei confronti delle istituzioni, ad ogni livello, e degli attori politici tradizionali non fa che aumentare. C’è poi da parte degli elettori quelli che ancora non si sono rifugiati in modo stabile nell’astensionismo o nell’apatia una disponibilità a rischiare che contraddice lo spirito di prudenza col quale in democrazia di solito si comporta la gran massa dei votanti. E questo spiega perché siano così tanto cresciuti quei partiti di protesta e opposizione al sistema che in realtà sono sempre esistiti nei regimi contemporanei ma che oggi sono divenuti forze di governo o comunque in grado di influenzare gli equilibri di potere. Anche il linguaggio politico e gli stili di leadership sono a loro volta molto cambiati. Pulsioni e cattivi pensieri che prima restavano confinati nella sfera privata o sociale oggi si trasformano facilmente in slogan di battaglia politica e trovano cittadinanza nella discussione pubblica. Oggi sono gli stessi capi di stato o di governo che ricorrono a toni aggressivi, minacce, insulti, quando non a menzogne deliberate. Non c’è argomento, anche il più scabroso, che non si presti ad essere utilizzato polemicamente. Si è radicata l’idea che alzare la voce sia un modo per dare forza al proprio punto di vista, peraltro espresso sempre più in forme elementari, semplificate e impoverite.

Matteo Salvini, per venire al punto, ha deciso di cavalcare esattamente quest’onda politico-emotiva e di fare suo, non senza abilità, il registro della rabbia antipolitica, della paura sociale indirizzata contro nemici che spesso sono soltanto immaginari o creati ad arte, del disagio sociale determinato dall’impoverimento dei ceti piccolo-borghesi e dalla disoccupazione giovanile. Non che la denuncia delle politiche d’austerità dell’Europa o della cattiva gestione dei flussi migratori non abbiano un fondamento. Il problema è come questi temi vengono affrontati dal leader leghista: alzando i toni sul terreno della propaganda la più spregiudicata, alimentando la paranoia complottista, presentando ricette tanto semplici quanto inapplicabili. Nello scontro con Berlusconi c’entra certamente l’ambizione personale a prenderne il posto. C’è dunque un problema di egemonia e di equilibri sul piano del potere tra partiti un tempo alleati. Ma c’è anche una divaricazione oggettiva e crescente sul terreno dei programmi, del linguaggio, delle prospettive di governo, dello stile, del modo stesso con cui ci si rapporta con gli elettori. Sarà pur vero che oggi non esistono più le ideologie e che le idee, nell’era della comunicazione affidata ad un tweet, contano sempre meno. Ma non bisogna esagerare con queste semplificazioni al limite della banalizzazione. Chiedere l’uscita dall’Europa e il ritorno alla divisa nazionale, elevare Putin a proprio punto di riferimento sulla scena internazionale, farsi paladino della sovranità nazionale contro la minaccia del mondialismo, sostenere una visione dell’identità politica collettiva come se fosse qualcosa di statico e assoluto e non un prodotto della storia, vivere l’immigrazione solo alla stregua di una minaccia alla propria sicurezza tutto ciò può essere legittimo, e forse aiuta a raccogliere consensi, ma si tratta di posizioni con le quali chi si professa moderato o liberale difficilmente può trovare un punto d’incontro o fare proprie. La radicalizzazione ideologica della destra italiana (da Salvini alla Meloni), certo favorita anche da quello che sta accadendo sulla scena internazionale la vittoria di Trump negli Stati Uniti, la crescita elettorale della Le Pen in Francia -, rappresenta insomma un cambiamento politico reale, che rende la riunificazione del centrodestra secondo lo schema seguito da Berlusconi a partire dal 1994 una prospettiva difficile da realizzare nell’immediato futuro. A meno che qualcuno non receda dalle proprie posizioni e si adatti a quelle del suo potenziale alleato. Ammesso che avremo ancora una coalizione di centrodestra alle prossime elezioni resta dunque da capire come davvero si distribuiranno le carte al suo interno e quale sarà la piattaforma dominante: sarà Berlusconi che si convertirà al nazionalismo anti-europeo o toccherà a Salvini e alla Meloni rinunciare al loro programma securitario e populista? Ma se nessuna di queste eventualità dovesse realizzarsi non è più sensato che ognuno vada (finalmente) per la sua strada?
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