Carta viva contro derive e iniquità

di Michele DI SCHIENA
5 Minuti di Lettura
Giovedì 27 Ottobre 2016, 20:50
“In questi tempi il pensiero è un prodotto raro”: così si è espresso in tv a “L’aria che tira” del 19 ottobre l’ex Presidente del Consiglio ed ex segretario della Dc Ciriaco De Mita, ribadendo un’opinione sulla qualità politica dell’attuale governo che di recente lo aveva indotto a parlare di “dilettanti” e di “parole senza pensiero”.
Un giudizio oggi centrato sul renzismo ma certo esteso all’intera classe politica dal momento che l’anziano Sindaco di Nusco qualche anno addietro già diceva: “siamo diventati un Paese che non pensa, non ha speranza e affoga nell’amoralità che è peggio dell’immoralità”.
Si può essere estimatori (quanto meno per l’indubbio acume politico del personaggio che induceva l’avvocato Agnelli a definirlo con una punta di ironia “un tipico intellettuale della Magna Grecia”) o critici per le accuse di clientelismo e di manovriera gestione del potere rivoltegli in passato, ma non vi è dubbio che l’intramontabile politico campano ha ragione quando stigmatizza l’affermarsi di una politica ripiegata su se stessa, priva di ispirazioni ideali, avulsa da qualsiasi tipo di valori e non sorretta da progetti che prefigurino e perseguano un salto qualitativo della convivenza sociale. Una politica che bolla di estremismo ogni dissenso su questioni di fondo e demonizza a salvaguardia dell’establishment ogni forma di protesta sociale ma si consuma poi in quotidiane e defatiganti diatribe su ogni faccenda attinente alla gestione del potere fine a se stessa.
Il fatto è che De Mita fa una corretta diagnosi del male che affligge la vita pubblica del Paese ma pecca di omissione perché non ne indaga le cause per delineare il quadro delle possibili terapie. È vero, oggi la politica è senza pensiero (a destra, a sinistra e anche nel limbo del Movimento pentastellato) ma si trova in tale situazione perché fa proprio o subisce, più o meno consapevolmente e in modi diversi, il “pensiero unico”, vale a dire quella teoria neo-liberista idolatrata da larghi settori del mondo economico, culturale e politico per i quali il mercato si autoregola da se stesso e non deve essere condizionato o influenzato da fattori esterni. E ciò con la conseguente affermazione del primato dell’economia sulla politica. Un’ideologia affermatasi nel progredito Occidente e poi fatta propria dai gruppi dominanti di vaste aree del pianeta che sta facendo crescere a dismisura le disuguaglianze sociali e che sta provocando disastri ambientali di enorme portata (è di questi giorni la notizia dello scioglimento in Antartide del ghiacciaio Thwwaites capace di far aumentare in tutto il mondo il livello del mare di oltre tre metri con la cancellazione di popolose città e vaste regioni).
Una dottrina che alimenta conflitti e risulta fallimentare proprio nel suo campo di elezione, e cioè quello dell’economia, come dimostrano le ricorrenti crisi legate l’una all’altra da rapporti di organica conseguenzialità che ne rivelano il carattere strutturale. Ha ragione allora Papa Francesco quando, in sintonia con le più avvertite coscienze etiche e culturali del mondo, afferma che il pensiero unico “prende le pietre per lapidare la libertà dei popoli, la libertà delle genti, la libertà delle coscienze”. Riproponendo il messaggio anni addietro lanciato durante una marcia per la Pace Perugia-Assisi, il coordinatore di tale iniziativa Flavio Lotti, in occasione della giornata mondiale per l’eliminazione della povertà, ha detto che la bomba “E”, molto simile alla bomba atomica, è la bomba di una economia ingiusta che va subito smantellata perché provoca instabilità e insicurezza dentro e fuori l’Italia, moltiplica le fratture e le tensioni sociali, le guerre, le carestie e la diffusione delle malattie, la crescita della criminalità organizzata, i conflitti per il controllo di risorse vitali come la terra, l’acqua e l’energia, le guerre etniche e civili, le distruzioni e le ondate migratorie. Il neo liberismo e la globalizzazione sono fattori di regressione della civiltà perché producono un sistema che bandisce la solidarietà, abbatte le protezione per i più deboli e assume a norma di comportamento la lotta di tutti contro tutti.
Gli eterni discorsi sulle svolte, sulle inversioni di rotta e sui cambiamenti lasciano il tempo che trovano se non si avviano politiche rivolte a superare esplicitamente e nei fatti, con il coraggio che la situazione richiede e con la gradualità che il buon senso consiglia, il superamento del sistema dominante con le sue iniquità e le sue storture. È questa l’unica politica nuova di cui abbiamo bisogno. Una graduale ma incisiva alternativa al neoliberismo che deve essere costruita intorno a un grande “pensiero politico”, quello della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, reso esplicito con precise indicazioni dalla nostra Costituzione. L’idea di una economia libera ma regolata da un potere pubblico impegnato a indirizzare e coordinare l’attività economica pubblica e privata a fini sociali e a fare in modo che la proprietà privata sia garantita allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. E ciò attraverso politiche che promuovano investimenti intesi a rendere effettivo il diritto al lavoro e introducano un sistema tributario veramente improntato a criteri di progressività.
Mentre è in pieno svolgimento un acceso confronto fra schieramenti e tesi in vista del referendum sulla riforma costituzionale, va richiamata l’attenzione di tutti sul problema dei problemi della politica italiana: quella del rispetto dei diritti essenziali e dell’attuazione delle direttive di cui alla prima parte della Costituzione, quella parte fondativa e progettuale nella quale dicono di riconoscersi tutte le forze politiche. E allora può essere di qualche utilità riproporre il discorso pronunciato da Piero Calamandrei a Milano il 26 gennaio 1955 in occasione dell’inaugurazione di un ciclo di conferenze organizzato da un gruppo di studenti per illustrare i principi morali e giuridici che sono a base della nostra comunità. Dopo aver ricordato che il nostro Statuto affida alla Repubblica nel suo complesso il compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono l’uguaglianza e l’effettiva partecipazione democratica dei cittadini, il grande giurista esortava i giovani a fare vivere del loro spirito e della loro forza il nostro Statuto. Una Costituzione – egli diceva – che “non è una Carta morta ma un testamento, il testamento di centomila morti”. E aggiungeva: “Se volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra Costituzione”.
Michele Di Schiena
© RIPRODUZIONE RISERVATA