Roby e il coraggio di vivere la vita fuori dalla scena

di Vincenzo MARUCCIO
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Domenica 19 Febbraio 2017, 17:50
Dopo i giorni delle scissioni, meglio l’unità di un pallone che rotola. Gli italiani divisi su tutto, lui che li metteva d’accordo. Un dribbling, uno scatto, il tocco a scavalcare il portiere: un flash, un’immagine stampata nella memoria, vecchi filmati che corrono su youtube. “Non è più domenica da quando Baggio non gioca più” cantava Cesare Cremonini. Perfetto se non fosse che la nostalgia è roba per gente che guarda solo all’indietro. Roby da Caldogno - provincia di Vicenza dove il Lanerossi lo lancia in prima squadra dopo un tunnel irriverente ad un avversario della Primavera - ha appeso le scarpette al chiodo da qualche anno, ma è sempre qui tra noi.
Niente interviste, niente telecronache da commentare, niente corsi a Coverciano per una panchina, lontano definitivamente dai riflettori, ma è come se non se ne fosse mai andato. Prende la palla a due metri dalla linea laterale, ne salta uno, due, tre, quattro e trafigge il portiere della Cecoslovacchia senza che nessuno lo possa fermare: la “Notte Italiana” diventa un codino per sempre e pazienza se non vinciamo il Mondiale che avevamo sognato.

Cinquant’anni ieri e le calendine spente tra i terremotati di Amatrice. Senza che nessuno glielo abbia chiesto, arrivato laggiù in punta di piedi con la sua famiglia, la commozione dietro gli occhiali scuri. Lontano dai riflettori perché le “vite in diretta” le lascia volentieri a chi preferisce la scena ad ogni costo. A qualche collega che va al Festival di Sanremo e un giorno glielo faranno pure presentare. A chi beve acqua minerale con l’uccellino che si posa accanto. A chi fa il commentatore, pubblica le foto su Instangram e usa Twitter per pontificare perfino sulle cose più stupide. Baggio è la prova che un altro calcio è possibile: che c’è un inizio e una fine, e il resto della vita lo puoi trascorrere anche a passeggiare nei boschi e a guardarti in tv l’amato Boca Juniors senza l’assillo dell’ennesimo talk show a cui sei invitato in abito firmato.

Baggio non si nasconde. Semplicemente vive, come aveva promesso che avrebbe fatto. Un’altra vita oltre il rettangolo di gioco, qualche incontro con i ragazzi in una scuola della zona, via dallo stress dell’apparire a tutti i costi che non ha mai sopportato. Il mito che nasce dall’assenza, ma non per scelta: antidivo per indole, ultimo dei romantici senza aver mai voluto diventarlo, idolo involontario. Fosse stato per lui avrebbe evitato di diventarlo anche a Firenze dove mezza città era scesa in piazza pur di non cederlo alla Signora in bianconero. Calciatore per il gusto del gioco, campione con naturalezza perché il pallone gli restava attaccato al piede come il suo Zico che da ragazzino imitava battendo le punizioni.

Baggio mai attaccato alla maglia a tutti i costi in un Paese in cui è una bestemmia cambiare squadra. Eppure, quasi miracolosamente, amato dai tifosi di tutte le curve. La Juve, il Milan, il Bologna, l’Inter. E, infine, il Brescia che oggi qualche collega miliardario avrebbe sdegnosamente rifiutato: lui aveva accettato volentieri perché di divertirsi aveva ancora una gran voglia. Sei maglie diverse (Vicenza e Fiorentina comprese): il destino ti porta a cambiare e tu raccogli la sfida fino a quando ti diverti. Non solo per soldi, non solo per riempirsi la bacheca di trofei. Ben oltre la retorica del campione con una sola maglia. Eppure sempre beniamino dei tifosi, anche i duri e puri che oggi, invece, non perdonano l’arrivederci e riempiono di insulti le bacheche dei social ad ogni sussulto di calciomercato. Pochi nemici, quasi zero. O, forse, sì, qualcuno: l’avvocato Agnelli che, per non esserne riuscito a rincondurlo allo stile-Juve, lo aveva definito “un pulcino bagnato”, Platini pronto a dire che Roby era un “9 e mezzo” più che un 10 di quelli che facevano la differenza. Per invidia, probabilmente. Senza per questo riceverne mai replica astiosa. Un sorriso semmai.

Lui, il Divin Codino, che dal dischetto aveva spedito la palla nel cielo di Padasena anziché depositarla dolcemente in rete nella finale contro il Brasile. Aveva trovato subito il coraggio di rialzarsi. Come il bimbo di tre anni che, quando cade ai giardini pubblici rincorrendo la palla, ti viene in mente Baggio. Chissà perché dopo che te l’eri quasi dimenticato. “Baggio chi, papà?”. Uno che giocava per divertirsi. Uno che, quando c’era lui, speravi che la partita non finisse mai. Lo stop, il dribbling e il gol al profumo di felicità. Bambino per sempre.
 
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