Caos Alitalia: il disastro annunciato

Caos Alitalia: il disastro annunciato
di Oscar GIANNINO
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Mercoledì 26 Aprile 2017, 13:46
Sulle grandi discontinuità d’impresa, quando si rendono necessarie ristrutturazioni dolorose, ormai i referendum tra lavoratori si convocano per rimarcare la crisi verticale di rappresentanza dei sindacati. E così è stato in Alitalia. Tra il personale di volo, a Milano come a Roma, i no hanno prevalso in maniera schiacciante. E su metà dei voti scrutinati complessivi, i no prevalgono per quattro a uno.

Sindacati, azionisti e governo hanno capito che senza personale di volo la compagnia non può procedere al programma di ricapitalizzazione che era stato annunciato, per 2 miliardi di cui 900 milioni di finanza fresca. Cgil Cisl e Uil per prime da giorni ammettevano a mezza bocca il timore di essere sconfessate. Ad aver chiesto il no esplicitamente sono stati alcuni sindacati di base come l’Usb e l’Anp, che ai dipendenti Alitalia hanno detto che era meglio vendere cara la pelle, dire no al taglio delle retribuzioni per il personale navigante, agli esuberi e alle mancate conferme dei contratti a tempo, pattuiti nell’intesa sottoposta al voto. Tanto, è stato l’argomento, si sa che è già partita la trattativa riservata con Lufthansa, che da Etihad recentemente ha assunto una quota anche di Air Berlin, e a quel punto l’arrivo dei tedeschi avrebbe significato nuovi tagli. Un ragionamento suicida, visto che così i tagli diventano immediati, con la discontinuità aziendale.

Qual è il sottinteso di questa campagna per il no? Semplice. Che sia lo Stato, a tornare ad accollarsi Alitalia, facendo marcia indietro sulla decisione di cederla ai privati nel 2008. I ministri Delrio e Calenda hanno reiteratamente detto che non esiste alcuna prospettiva di rinazionalizzazione. E che, su richiesta dei soci che non ricapitalizzano, al governo non resta che rispondere positivamente alla richiesta inevitabile di amministrazione straordinaria speciale, procedendo, secondo la legge Marzano modificata ai tempi di Parmalat, alla nomina di uno o più commissari.

Per il governo Gentiloni, non bastassero i problemi che ha, si tratta di una pesante grana imprevista. La Parmalat era gonfia di liquidità, strappata da Enrico Bondi alle banche che ne avevano impropriamente piazzato i bonds. Alitalia non ha più cassa se non per un mese o al massimo due, ne brucia ogni giorno. Ha un pesante debito, diciamo oltre un miliardo anche se non abbiamo il bilancio 2016 per dirlo con precisione. Senza cassa, il piano che deve stilare il commissario da sottoporre a creditori e potenziali acquirenti implica un coinvolgimento della finanza pubblica per alcune centinaia di milioni. E a questo punto partirà ovviamente il coro dei sindacati da una parte, e di vaste aree della politica dall’altra, contro ogni pretesa «svendita» della compagnia: tanto più se la trattativa fosse con l’unica davvero interessata ad aggregarla, cioè i tedeschi di Lufthansa che in questi anni hanno annesso compagnie in Svizzera, Austria e Belgio. Per molti politici, l’avvicinarsi delle elezioni è un ideale bis del 2008: anche allora si decise in campagna elettorale il no alla cessione dallo Stato ad Air France, per dare Alitalia invece ai «capitani coraggiosi» italiani. Col bel risultato che ai 7,4 miliardi di perdite dell’Alitalia pubblica calcolati da Mediobanca abbiamo sommato in questi anni di Alitalia privata altri 4,5 miliardi pubblici tra oneri statali del fallimento, Cigs straordinaria agli esuberi di allora, investimento bruciato di Poste, oneri aggiuntivi sui biglietti pagati da tutti i passeggeri, a cui sommare altri 1,4 miliardi di minori introiti Iva.

L’alternativa, se il governo Gentiloni reggerà alla pressione, è che il commissario avvii invece la liquidazione, con due anni di NASPI per il personale, gli asset della compagnia ceduti tramite spezzatino, e le rotte riaggiudicate dall’autorità di regolazione. A rigor di logica in queste ore è l’ipotesi più probabile: anche perché né Lufthansa né altri comprebbero a maggior prezzo e con tanti debiti asset.

La differenza sarà esercitata da imponenti pressioni politico-sindacali. Dimenticando che in realtà l’Alitalia attuale non può reggere, e figuriamoci se ridimensionata, alla concorrenza duplice: delle low cost e delle grandi compagnie che ormai hanno sia low cost che vettori tradizionali a maggior redditività nel lungo raggio. Tanto per fare qualche numero, nel 2005 Ryanair aveva 33,4 milioni di passeggeri e Alitalia 30. Dieci anni dopo, Ryanair ne aveva 107,7 e l’anno scorso ha superato anche Lufthansa come primo vettore europeo, superando i 120 milioni di passeggeri. Alitalia è scesa a 23 milioni, e copre a malapena il 40% del mercato domestico italiano, mentre esso aumentava in un decennio del 135%. Avendo ricavi per chilometro-passeggero che in termini comparati, schiacciata com’è sul mercato domestico, non la reggono malgrado costi che in termini comparati sono inferiori di un terzo a quelli di Air France e di un quarto rispetto a Lufthansa.

È troppo presto per capire come davvero il governo gestirà questo disastro, per altro largamente annunciato visto che per anni è rimasto inascoltato chi ha tentato di dire che il piano dei privati, sia prima sia dopo Etihad, non stava in piedi. E infatti i soci e le banche hanno accumulato dal 2009 altri 3 miliardi di perdite. Ma due cose si possono dire, fuori dai denti.

La prima è che il no dei dipendenti è largamente figlio di sindacati e sindacatini che, nei decenni, hanno continuato a istillare nei lavoratori della compagnia, malgrado le crisi reiterate e i tanti tagli già avvenuti, l’idea che alla fine si trattasse di una società pubblica, destinata in un modo o nell’altro a essere salvata. È purtroppo una dolorosa lezione: il mancato adattamento alle trasformazioni e alle sfide dell’ambiente in cui si vive è esattamente la ragione che nella storia porta all’estinzione di molte specie.

La seconda è che, di fronte all’ennesimo fallimento di Alitalia, la politica si ritrova a un bivio. Ha detto no decenni fa alla fusione con Klm, poi in due occasioni ha detto no ad Air France. Si è accanita a dilapidare miliardi attraverso la gestione pubblica. Ne ha bruciati altri sostenendo troppo generosamente i privati. Ora l’alternativa è chiara. O la politica decide di ascoltare la voce di milioni di italiani che sono stufi di pagare di tasca propria per una compagnia il cui management pubblico e privato si è rivelato incapace di reggere alla sfida di un mercato che cresceva malgrado la crisi mondiale. E allora al governo non resta che intraprendere in fretta le procedure concorsuali. Oppure decide di rimettere la mano nelle tasche dei contribuenti. Senza prospettive di guadagnare per anni e anni, vista la flotta a disposizione e i margini inesistenti. Sfidando non solo la logica, ma anche il voto contrario alle urne di chi è stanco di pagare.
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