Il 23 maggio, quanti simboli in quella data

di Roberto TANISI
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Lunedì 23 Maggio 2016, 15:49
Ci sono date che non si dimenticano. Ci sono giorni, momenti rispetto ai quali la nostra memoria si conserva integra, vivida, cristallizzata: dove eravamo, con chi stavamo, cosa stavamo facendo. Il giorno in cui uccisero Giovanni Falcone è uno di quelli.  A distanza di 24 anni ricordo perfettamente, come in un nitido flash-back, dov’ero, con chi stavo, cosa facevo quando la notizia mi raggiunse. Ricordo le prime immagini dell’attentato, sconvolgenti, poi riviste ancora e ancora, nel corso degli anni. Sempre con la stessa emozione. E quelle dell’eccidio di Paolo Borsellino, 57 giorni dopo.

Sono trascorsi 24 anni, da allora. 24 anni dopo il Paese, le Istituzioni, i Magistrati, i Cittadini ricordano. Perché un’altra strage come quella non abbia a ripetersi. Anche se non è facile. È di pochi giorni fa la notizia di un progetto di attentato contro il Procuratore di Napoli, Colangelo, per fortuna sventato in tempo. Come è di pochi giorni fa l’agguato, per fortuna non riuscito, contro Giuseppe Antoci, Presidente del Parco dei Nebrodi, in Sicilia. Antoci era sconosciuto ai più, fa parte di quell’antimafia “dei fatti”, della quale non si parla sulla stampa o nei media, ma che Cosa Nostra conosce assai bene, perché, in silenzio, sa assestare colpi durissimi al malaffare mafioso. Nel suo ruolo di Presidente del Parco dei Nebrodi Antoci era riuscito a strappare alla mafia rurale di Messina migliaia di ettari di terreno demaniale, che le famiglie mafiose avevano ottenuto con la complicità di funzionari corrotti o collusi. Ne aveva parlato, mesi fa, in televisione, un cronista attento e coraggioso come Riccardo Iacona, nel suo “Presa diretta”. Gli uomini d’onore del messinese avevano interesse ad avere in concessione i terreni del Parco, perché grazie ad essi ottenevano lucrosi finanziamenti europei, almeno un milione e mezzo di euro l’anno. Ma Antoci era diventato l’ostacolo, la pietra d’inciampo rispetto a tutto questo. Ed ecco, allora, che la mafia “sotterranea”, silente torna ad alzare la voce. Dapprima le minacce – “finirai scannato” – poi i fatti: nella notte di mercoledì alcuni “picciotti” collocano dei massi sulla strada per Cesarò, percorsa da Antoci con la sua auto blindata, lo costringono a fermarsi, lo fanno oggetto di una gragnuola di colpi di lupara. L’auto blindata, per fortuna, regge e dopo tre interminabili minuti giunge una pattuglia di scorta che risponde al fuoco. Poi anche gli agenti che accompagnavano in auto Antoci riescono ad uscire fuori e ad esplodere dei colpi di mitraglietta, costringendo i banditi ad abbandonare il campo.

L’agguato è fallito, ma non c’è da stare allegri. In Sicilia, ancora oggi, a 24 anni da Capaci, si può morire solo per il fatto di adempiere al proprio dovere, mentre in Campania 70 Pubblici Ministeri denunciano di aver chiesto protezione, ma di essere stati lasciati soli.
Allora, nel ventiquattresimo anniversario della strage di Capaci, oltre a celebrare la fulgida memoria di Falcone e Borsellino, è necessario riflettere su quanto lungo sia ancora il percorso del definitivo affrancamento dalla mafia e su quali e quante complicità, dentro e fuori delle Istituzioni, in Sicilia e nel resto d’Italia, la criminalità organizzata possa contare per la realizzazione dei suoi ignobili scopi. L’Italia non ha bisogno di altri “eroi”, di altri caduti sul sentiero della legalità. Occorrono fatti. Ed occorre anche che nelle celebrazioni di questi giorni si facciano finalmente da parte taluni figuri che – come ebbe a dire qualche anno fa il P.G. di Palermo Roberto Scarpinato - siedono “tra le prime file, nei posti riservati alle autorità... personaggi la cui condotta di vita sembra essere la negazione stessa di quei valori di giustizia e di legalità” per i quali Falcone e Borsellino si fecero uccidere.

La Storia del nostro Paese si connota, purtroppo, per la lunga scia di delitti, di stragi, di omicidi eccellenti ascrivibili a quella che con espressione onnicomprensiva e, pur tuttavia, semplificativa, chiamiamo “mafia”. Un susseguirsi ininterrotto di sanguinarie vicende criminali, tutte dalle trame estremamente complesse, nelle quali si sono sovrapposti ed intrecciati, in un viluppo inestricabile, interessi di soggetti interni alla criminalità organizzata, ma anche interessi di soggetti esterni (almeno all’apparenza), lungo una linea di confine non perfettamente definita, mobile, quanto mai evanescente. Quello della “lotta alla mafia” non è, dunque, solo un problema di politica criminale, da risolversi con l’adozione di ulteriori misure repressive più o meno efficaci, ma è un problema “politico” e, prima ancora, culturale, a causa delle interessenze e dei legami fra organizzazioni criminali ed esponenti della vita politica ed economica del Paese, che hanno garantito e facilitato l’espansione del fenomeno mafioso da un livello locale ad un livello nazionale e trans-nazionale. Ecco, allora, impellente, la necessità di fare chiarezza, di distinguere il grano dal loglio: a questo debbono tendere le celebrazioni del 23 maggio, per non restare solo un’occasione, importante ma sterile, di memoria.

Ma il 23 maggio, per noi che quotidianamente frequentiamo il Palazzo di Giustizia di Lecce, è anche la data di un altro doloroso anniversario, il primo dalla scomparsa dell’avvocato Angelo Pallara. Un uomo, un avvocato che ha scritto una pagina indelebile sul grande libro della Giustizia, lasciando, con la sua morte prematura, un vuoto che, giorno dopo giorno, appare sempre più grande e incolmabile. Angelo Pallara era una presenza costante nel nostro lavoro di ogni giorno, era uno stimolo ad approfondire, a confrontarsi con la dottrina e la giurisprudenza più aggiornate, ad esaminare con accuratezza ogni prova, a vagliare anche il più piccolo dettaglio del processo. Se è vero che al difensore compete la funzione di “mediatore” fra l’apparato giudiziario ed il cittadino, affiancandosi a quest’ultimo per sostenerne le ragioni nel giudizio civile, ovvero per fronteggiare la pretesa punitiva dello Stato nel giudizio penale, Angelo Pallara seppe svolgere questo ruolo al meglio, con capacità tecniche non comuni, esercitando la “doverosa parzialità” propria della sua professione, nel pieno rispetto dei codici e della deontologia. 
Ricordarlo, mantenerne viva la memoria è il meno che possiamo fare e che tutti noi, giudici, avvocati e cittadini, gli dobbiamo.
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