Perché si può indagare sulla Ferrante

Perché si può indagare sulla Ferrante
di Francesco Durante
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Martedì 4 Ottobre 2016, 12:40 - Ultimo aggiornamento: 13:12
Manco fosse Beppe Grillo, Sandro Ferri, titolare delle Edizioni e/o, trova «disgustoso il giornalismo che indaga nella privacy e tratta le scrittrici come camorriste». Lo dice dopo che «Il Sole 24 Ore» ha pubblicato l’inchiesta che, attraverso l’esame dei compensi percepiti e delle visure catastali degli immobili acquistati, è giunta alla conclusione che la misteriosa Elena Ferrante è Anita Raja, traduttrice e moglie dello scrittore Domenico Starnone. La tecnica del «follow the money» ha confermato sospetti, per non dire convinzioni, da anni radicati negli ambienti letterari ed editoriali. 

E insomma si tratta adesso di decidere se dire «bravo» al giornalista che ha fatto lo scoop, o se invece ci si debba schierare sul già ben munito fronte degli indignati che condividono il disgusto di Ferri.  Se è consentito un approccio vagamente curiale alla questione, dirò innanzitutto che anch’io, come per esempio Nicola Lagioia (l’unico italiano che finora abbia potuto, sia pure a distanza e senza conoscerne l’identità, intervistare la Ferrante) potrei affermare di essere più interessato a leggere l’opera della scrittrice che a conoscerne la vera identità. Considero la Ferrante (l’ho anche scritto) una specie di classico, e un capolavoro la quadrilogia della «Amica geniale». Fatta però questa premessa, non riesco a trattenere un «tuttavia» grande come una casa. Sarà perché sono un giornalista, trovo infatti che nel momento stesso in cui uno scrittore, d’accordo col suo editore, decide di firmarsi con uno pseudonimo, è come se desse il via a un gioco di società, destinato a diventare tanto più ossessivo e coinvolgente quanto più ampio sarà stato il successo di quello stesso scrittore. È sempre stato così, ci sono molti e anche illustri precedenti. 

Il cuore del problema è proprio il nome. Se Elena Ferrante si chiamasse veramente Elena Ferrante, ma avesse scelto di non comparire, di non partecipare a manifestazioni pubbliche, di non farsi fotografare né riprendere, allo stesso modo di scrittori come J. D. Salinger e Thomas Pynchon, allora sì sarebbe disgustoso se ci fossero quotidiani appostamenti di giornalisti intenzionati a violare la sua privacy. D’altro canto, se i libri di Elena Ferrante fossero usciti con la dicitura «Anonimo» (senz’altro poco seducente, anche e soprattutto da un punto di vista commerciale) al posto del nome dell’autrice, sarebbe stato assai più complicato scatenare la caccia, e arrivare a questo esito così «disgustoso». Ma il punto è che «Elena Ferrante» è uno pseudonimo, e che, inutile negarlo, una certa parte del successo dell’autrice è legata proprio al mistero che da sempre ne accompagna l’opera. Aggiungerò che si tratta di un mistero difficile da digerire in un paese come l’Italia, in cui, come diceva l’immancabile Ennio Flaiano, non faremo mai la rivoluzione dato che ci conosciamo tutti. E invece, benché ci conoscessimo tutti, per fin troppo tempo non siamo riusciti a risolvere il puzzle-Ferrante: il che, diciamolo, da un punto di vista strettamente giornalistico era una vera mortificazione.

Bisognerebbe insomma spiegare a Sandro Ferri che, dopotutto, è stato lui a mettere in circolo il giocattolo, ed era fatale che qualcuno accettasse di giocarci, e che il gioco, finora innocente e, anzi, assai vantaggioso, prima o poi dovesse arrivare a una svolta. L’editore trova che i metodi usati dal «Sole 24 Ore» sono poco eleganti? Pazienza: si sa che certe volte i giornalisti non vanno troppo per il sottile. E certo Ferri non poteva pretendere che tutti fossero compassati critici letterari usi ai soli strumenti della letteratura e della filologia, gli stessi che il professor Marco Santagata mise in campo la primavera scorsa, giungendo peraltro a conclusioni diverse da quelle cui è ora pervenuto «Il Sole». Ma va ricordato che anche a ridosso dell’indagine di Santagata ci fu chi osservò che l’unica pista che avrebbe potuto dare risultati seri sarebbe stata quella della dichiarazione dei redditi, e dunque quel che è successo potevamo pure aspettarcelo.

Ma Ferri (e con lui tanti altri) insiste: «È un assedio senza tregua, una mancanza di rispetto nei confronti di una persona che non vuole apparire», e insomma una lesione dei diritti di Anita Raja, alla quale un giornale (non per caso economico) ha fatto i conti in tasca. Questa pare a me l’unica osservazione sensata, e quella su cui, eventualmente, ci si potrà misurare in sede legale. Tutto il resto è assai discutibile.
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