«Turni massacranti fino a 12 ore:
e nessuno era libero di andare via»

«Turni massacranti fino a 12 ore: e nessuno era libero di andare via»
di Erasmo MARINAZZO
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Venerdì 14 Luglio 2017, 05:50 - Ultimo aggiornamento: 18:54
«Perché continuo a contestare questo reato? Perché mi sono trovata davanti un ragazzo con segni di torture subite nei campi, davanti a chi aveva un panino e non riusciva a mangiarlo per la stanchezza, davanti a chi non aveva da mangiare. Questa è l’Italia, questo è il territorio di Nardò», le parole del procuratore aggiunto Elsa Valeria Mignone per spiegare la sussistenza del reato di riduzione in schiavitù, nella requisitoria di settembre dell’anno scorso.
«Vi dovrete immedesimare in loro, nelle vittime, e non ignorare certe situazioni come fecero la polizia municipale di Nardò ed il sindaco che non volle costituirsi parte civile in questo processo (il riferimento è all’ex primo cittadino, l’avvocato Marcello Risi, ndr). Anche se in questo processo abbiamo dibattuto soprattutto della violenza psicologica, quella più difficile da dimostrare. Nel mio capo di imputazione troverete tutto questo, troverete ritmi sfiancanti, orari assurdi, impossibilità per i lavoratori di poter disporre della libertà di andare via. È vero tutto questo? Il processo ci ha consegnato tutto questo? Il Tribunale del Riesame sostenne che vi era il consenso dei lavoratori, che avessero la capacità di autodeterminazione».
Il magistrato introdusse allora nella discussione il tema della vulnerabilità che nel 2014 riformò il reato di riduzione in schiavitù: la riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione ha luogo quando la condotta è attuata mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di vulnerabilità, di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona. Cioè: «Una situazione in cui la persona in questione non ha altra scelta effettiva ed accettabile, se non cedere all’abuso di cui è vittima».
 
Il capo di imputazione a cui fece riferimento il magistrato che ha condotto l’inchiesta con i carabinieri del Ros, sostiene il concetto di stato di soggezione continuativa come condizione analoga alla schiavitù. Reclutati dai “caporali”, i braccianti sarebbero stati messi a disposizione delle aziende agricole, divisi in squadre e sottoposti a ritmi di lavoro infernali: «Dieci-dodici ore al giorno, senza riposo settimanale, nella maggior parte dei casi in nero, versando compensi di gran lunga inferiori a quelli previsti; ospitandoli, stipati e ammassati, in casolari abbandonati e fatiscenti, privi di servizi igienici ed arredi, facendosi corrispondere prezzi eccessivi e spropositati per la fornitura di alimenti e bevande e per il trasporto sui campi, che trattenevano sulla “paga finale”. L’accusa ha infine sostenuto che se i braccianti si ribellavano, venivano privati dei documenti. Non avevano così la possibilità di scegliere liberamente se restare o se andare via.
«Nel processo abbiamo chiamato a testimoniare alcuni braccianti siciliani», ha riferito al termine del processo l’avvocato Viola Messa, legale di Ivan Sagnet e di altri braccianti. «Hanno raccontato di essere andati via dopo una settimana a causa delle insostenibili condizioni di lavoro. Loro, italiani, con una famiglia ed una residenza vicine, potevano farlo: gli stranieri no, dove sarebbero potuto andare se non parlavano nemmeno italiano? Questo processo ha superato una visione arcaica del concetto di riduzione in schiavitù, quello delle galere romane. La Cassazione ha poi chiarito che il reato sussista quando i braccianti siano privi di permesso di soggiorno, quando non hanno collegamenti con il territorio, ed infatti erano ghettizzati a Boncuri mentre i “caporali” avevano il domicilio nel centro abitato, ed erano arrivati nel Salento dopo essere sbarcati in Sicilia e passando per la Calabria. Potevano scegliere? Non sapevano nemmeno cosa scegliere, anche perché avevano contratto debiti notevoli con l’organizzazione, per arrivare in Italia».
 
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