Moser: «Ho osato vincere anche qui
Il Velodromo degli Ulivi? Una ferita»

Francesco Moser
Francesco Moser
di Antonio Imperiale
7 Minuti di Lettura
Sabato 26 Marzo 2016, 08:47 - Ultimo aggiornamento: 27 Marzo, 08:29

LECCE - «Io la bicicletta l’ho sempre vista per casa, un arnese da lavoro come la vanga e la roncola. A correre, corse ufficiali, intendo, ho cominciato abbastanza tardi,a 18 anni compiuti. C’erano già abbastanza Moser in sella ad una bici da corsa, non mi sentivo predestinato». Lo racconta a Gianni Mura, nel “Non gioco più, me ne vado” del giornalista che è considerato da tutti l’erede del grande Gianni Brera. Mura lo chiama il “Bocia”, il più piccolo di quella grande famiglia arrampicata lassù, a Palù, cinquecentotrentasette abitanti, frazione di Giovo, nel Trentino, il vino buono, il Muller Turgau e tanti altri. Anche il vino dei fratelli Moser, nelle cantine fra la suggestioni del Maso, il Villa Warth, un tiro di schioppo da Trento. La vanga, la roncola, la bicicletta, una questione di famiglia, di una famiglia d’altri tempi,dodici fratelli, prima di Francesco sulla due ruote c’erano saliti già Gustavo, Aldo, Enzo e Diego. 

La bicicletta e la cultura del vino, della terra. Quando sale sulla bici Francesco diventa subito lo “Sceriffo”. Poi lo chiameranno anche Franz, Kaiser, Moserone e naturalmente Checco. Un leader naturale, forgiatosi con il lavoro duro dei campi. La faccia da montanaro come simbolo della grandezza dell’animo, della scorza dura, del non arrendersi mai. Il fascino sulle folle che si fa universale, perché è uno vero Corre e vince, più di tutti. Su strada, su pista. In Italia, in Europa, nel mondo. 273 volte. Ha vinto praticamente tutto. Nessun altro italiano come lui. Scarpe grosse e cervello fino, si è sempre detto dei contadini. E lui che viene dalla montagna e dalla passione per i campi, per la vite, per il vino, diventa anche uno dei più grandi innovatori. Una sorta di rivoluzione. La bicicletta con le ruote lenticolari, le lenti antivento. Servirono per intestarsi a Città del Messico il record dell’ora. Il “contadino” che supera Merckx il “borghese” del ciclismo, soprannominato “il cannibale”. Tre volte recordman ai diversi livelli di altitudine.

Moser e la Puglia, una storia d’amore e di vittorie. Sbocciata esattamente 40 anni fa. Un incontro con i colori dell’iride, medaglia d’argento su strada e madaglia d’oro su pista. Correva il 1976, la Valle d’Itria, il Salento diventano capitali mondiali, il Mondiale su strada a Ostuni, il mondiale su pista a Monteroni, sul Velodromo nuovo di zecca, che durerà lo spazio del Mondiale e poco altro e che si fa fatica a rimettere in vita, e che per adesso è ancora appeso alle speranze che le promesse diventino realtà.

“Ho osato vincere”, come il titolo del libro nel quale si racconta uscito a metà dell’anno scorso (molto bello e molto vero anche il sottotitolo: “Ho vinto spesso, qualche volta ho perso, non ho mai partecipato”). Ha osato vincere anche in Puglia. Cosa ricorda, Moser?
“Ad Ostuni alla fine della corsa, su un percorso non difficilissimo, avevo provato uno strappo a Cisternino all’ultimo giro, la squadra belga aiutò compatto Maertens, arrivammo in volata tutti e due e ce la stavamo giocando, ma la volata era il punto di forza di Maertens. A Monteroni nella gara ad inseguimento, l’emozione di salire sul podio più alto, la maglia iridata, l’inno nazionale, in una struttura nuova, una soddisfazione immensa”.
 


Un ricordo particolare, il più bello di quelle giornate?
“Consumi così velocemnte quei momenti che non è che hai tempo per ricordarti. Il momento della premiazione è sempre un’emozione che si rinnova. Ricordo che era venuto anche Andreotti. Non ricordo se quell’anno fosse presidente del Consiglio (lo era, ndr). Magari aveva aiutato qualche politico locale per la realizzazione del bellissimo Velodromo”.

Già. Bellissimo velodromo. Peccato che dopo pochi anni è rimasto una sorta di cattedrale nel deserto. Ed ora è completamente abbandonato. Si sta riprovando a ridargli vita, fra mille difficoltà.
“Così come era stato concepito era inevitabile. Se ad una così grande struttura in legno non metti un tetto, sotto le intemperie del tempo necessariamente finisce in rovina. E così è stato. Una ferita vederlo così, soprattutto per me, visto che ci ho conquistato un oro mondiale”. 

Non solo pista. In bici su quei percorsi del Salento che allora pochi conoscevano e che oggi invece sono diventati grande attrattiva per i turisti. Che ricordi ha?
“Il percorso del mondiale su strada era davvero fantastico dal punto di vista paesaggistico. Venivo dalla campagna, già allora facevamo il vino in Trentino. Ammiravo la cura con la quale anche qui era tenuta la campagna. I vigneti della Valle d’Itria gestiti davvero bene. E poi la bellezza della Valle, con i suoi luoghi caratteristici, il fascino dei trulli, delle grandi masserie. E poi le bellezze del Salento. Mi porto ancora dentro una partenza del giro d’Italia da Lecce, è molto di più di una città. Un ricordo eccezionale: il regalo del presepe in cartapesta, quelle straordinarie opere dei vostri artigiani. Era un signore che aveva una di quelle botteghe nel cuore di Lecce dove si coglie il respiro antico della città, la sua cultura. In occasione del Giro finalmente l’ho conosciuto. Peccato che adesso ci sono così poche occasioni di correre al Sud. Eppure il ciclismo può essere un volano eccezionale per far conoscere e valorizzare ancora di più questa terra”.

Lei ha anche corso il giro della Puglia.
“Certo. Ed era bellissimo, in cinque tappe. Le tappe fra i trulli, il Gargano, Manfredonia, Pugnochiuso, Brindisi, Bari. Una volta sconfinammo verso Matera, con l’acqua che veniva furori dai tombini. Poi è scomparso tutto. Ormai ci si ferma in Toscana. Non si corre in Puglia, ma nemmeno in Campania, neppure in Sicilia, in Calabria. Dal punto di vista ciclistico il Sud lo hanno fatto diventare un deserto”.

Quali le cause, secondo lei?
“C’è stata una riforma che ha cambiato le cose in peggio. Ed in queste realtà fare ciclismo oggi è più problematico. Se ricordo bene, l’ultimo pugliese a mettersi in luce oltre regione è stato Di Tano nel ciclocross”. 

Eppure Nibali è un siciliano e Aru è sardo...
“È vero, ma sono stati costretti ad emigrare per realizzare le loro grandi potenzialità. Lo hanno fatto al Nord.”

Cosa le ha dato il ciclismo?
“Mi ha cambiato la vita. Sarei rimasto solo nel mio Trentino. Invece ho conosciuto il mondo”

Torniamo al suo libro: quanto c’è di fatica e quanto di poesia, nel ciclismo?
“C’è tanta fatica ed ogni volta che cadi ti devi rialzare, una, dieci, cento volte. Ti devi rialzare sempre, non ti devi arrendere mai. Io devo molto alla cultura di una famiglia abituata a lottare, a sudare. Ecco, bisogna sempre avere la forza di osare. I giovani hanno bisogno di esempi, il ciclismo e lo sport in genere hanno il dovere di proporli con coerenza... C’è tanta poesia, tanta umanità nelle carovane che invadono strade e paesi, nell’incontro con la gente, con i paesaggi diversi. È uno sport bellissimo”.

L’agguato del doping quanto pesa?
“È un male mondiale che va estirpato. Il ciclismo ha il vantaggio di possedere i suoi anticorpi ed un rigore diverso nei controlli rispetto ad altre situazioni. Siamo sulla strada buona per uscirne”. 

Che ne pensa del “caso Pantani” ultima versione?
“Non si possono tirare fuori certe cose a distanza di vent’anni. Non è possibile. Poi si sa come vanno le cose. Si spara la notizia e poi tutto quello che viene detto viene archiviato. Difficile capire i fondi di verità. Pantani è morto. Sarebbe bene lasciarlo in pace”.

Lei si racconta nel suo libro. Antonio Conte, leccese, si è raccontato in questi giorni nel suo “Testa, cuore e gambe” mentre sta per lasciare la Nazionale.
“Lasciando la Nazionale potrà fare quello che vuole.
Le squadre che comprano i giocatori non li vogliono rischiare e chi sta su quella panchina è costretto a fare salti mortali per mettere in campo una formazione competitiva. Tanto è vero che non c’è una grande corsa per sostituire Conte. E questo è un peccato”.

© RIPRODUZIONE RISERVATA