Francesco Corvaglia, il pasionario Dc
che portò a Lecce il Papa

Francesco Corvaglia, il pasionario Dc che portò a Lecce il Papa
di Angela NATALE
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Domenica 28 Maggio 2017, 08:35 - Ultimo aggiornamento: 22:44

Ripartiamo dalla fine. Augusto Melica sgambettato dal suo partito, la Dc, città senza sindaco. Un’altra volta. Anno di grazia 1988. Mese: ottobre. A Palazzo Carafa si scalpita, nelle segrete stanze si decide. In realtà i giochi erano fatti: il posto del medico gentiluomo era stato prenotato per l’ingegnere Pino Marasco. Così avevano deciso gli onorevoli scudocrociati Nicola Quarta e Pino Leccisi, comandanti in capo del partito.
Così non sarà. La maggioranza che aveva tradito Melica, ha un sussulto di orgoglio, una parte della Dc riavvolge il bandolo della matassa e si ricompatta convergendo, con il sostegno del Pci, su un nome: Francesco Corvaglia, anni 47, politico di lungo corso, ex Pli, quindi Dc dopo la coltellata al cuore che gli diede da liberale Ennio Bonea. Già, Bonea, l’intellettuale ex monarchico ed ex massariano a cui nelle politiche del 1968, grazie ai voti di don Ciccio, gli riuscì la doppia elezione a Camera e Senato. Ma che, invece, di optare per Palazzo Madama scelse di fare i deputato lasciando a terra Corvaglia, primo dei non eletti.
Partiamo da qui. Da Bonea che impallina uno dei suoi più cari amici. Per don Ciccio fu un dramma, e non solo perché da buon cacciatore alle volpi qual era, aveva fatto la figura dell’agnello sacrificale. Aveva festeggiato per due mesi con amici, parenti e gente di strada l’elezione a futuro parlamentare. Poi la doccia fredda. E le invettive a denti stretti. Fu alto tradimento. E, proprio come lo era stato per Augusto Melica, lo stesso Corvaglia ne prenderà il posto grazie all’ex sindaco Dc Salvatore Capilungo che lo accolse tra le braccia del partito.
Fu un blitz, quello confezionato ad arte per rimescolare le carte in seno alla Dc e depotenziare le cordate correntizie. Blitz vincente. Non era tra i papabili, Corvaglia. Ma non era sconosciuto alla città di Lecce. Per quanto la sua carta di identità fino alla sua entrata in politica lo dava cittadino di Leuca. Ma era una miniera di voti, che oscillavano tra i 7mila e gli 8mila. Da dove li prendeva? Dalle riserve di caccia. La caccia il suo sport - se sport può essere definito - preferito. Per anni alla guida dell’Associazione provinciale dei cacciatori, si era creato un’area protetta in cui all’occorrenza pescare. Ed erano voti pesanti considerata la multiculturalità degli iscritti uniti dalla passione e dalla umana poliedricità.
Dalla caccia alla volpe ai volponi di Palazzo. Ci rimarrà dall’88 al 1995, don Ciccio. Ma con l’intermezzo, durato sette mesi (dal ’93 al ’94), di Ottorino Fiore. Che cosa era accaduto? Aveva ricevuto un avviso di garanzia il sindaco verace perché, senza alcun atto deliberativo, aveva spostato le bancarelle dalla piazza del mercato ai piedi della villa comunale. Non aspettò che qualcuno gli sparasse addosso e se ne andò con i suoi piedi per quanto scocciato dall’interferenza della magistratura che anche Lecce aveva iniziato a scoperchiare la pentola degli intrecci tra affari, politica e massoneria. Così come era uscito di scena, ritornerà a testa alta, riprendendo in pieno le redine del comando.
L’uomo era così. Decisionista, irruento, passionario. E vulcanico. L’erede, in questo senso, di Oronzo Massari, il sindaco monarchico più amato dai leccesi. Almeno sino a quando sulla scena non è apparso lui, il sindaco della gente, quello della porta accanto, quello che rifiutava l’autista e girava per la città con la sua Panda nera mezza scassata. Quello che seguiva personalmente tutti i lavori e non solo perché all’epoca i dirigenti era senza potere. “Pronto, chi sei?”. Sì, anche al telefono rispondeva lui nella sua stanza da sindaco e sotto ai riflettori di una tv locale che si era inventata il programma in diretta “Chiama il sindaco”. Non voleva filtri, non voleva portaborse, il semaforo era sempre verde per chi andava a trovarlo in Comune o l’aspettava – ed erano in tanti ogni mattina - sotto casa, in piazza Mazzini. Per affetto e per bisogno, faceva quel che poteva per alleviarne il dolore dei sopravvissuti alla disoccupazione dilagante o di senzatetto conclamati, spesso e volentieri sborsando di tasca propria.
Era così Corvaglia. Con lui una serie di problemi – per sua stessa ammissione – sono stati risolti dando un calcio alla “cultura del rinvio” che paralizzava l’agire amministrativo. Su tutto ha sempre messo la lotta al’evasione tributaria, e si capisce. Aveva trovato le casse vuote: ben 12mila contribuenti furono stanati.
 Una boccata d’ossigeno per il Comune, nonostante le difficoltà di natura finanziaria continueranno a pesare, esasperando alcuni problemi impellenti – come la carenza di alloggi popolari - tanto che il Cipe aveva inserito Lecce tra le “città ad alta tensione abitativa”. E, tra i primi provvedimenti assunti, figurano il restauro dell’obelisco, il Piano commerciale, il Piano regolatore, il restauro del teatro Paisiello, la nuova sala consiliare e il restauro del prospetto di Palazzo Carafa, l’inizio dei lavori per la tangenziale est e l’avvio dell’iter per l’accesso ai fondi europei del piano Urban, fiore all’occhiello dell’amministrazione Poli Bortone. Il tutto mantenendo – parole sue – «ottimi rapporti con le opposizioni» e straordinarie amicizie in ambito clericale. Monsignor Francesco Ruppi era un suo grandissimo amico ed era spesso nella sua casa di Santa Maria di Leuca a mangiare, in pantaloncini corti, friselline condite con olio e pomodoro. Visite di rito, informali, amichevoli. Quando a Lecce, su intercessione di Ruppi, verrà Papa Wojtyla sarà altro stile: la fascia tricolore al petto, emozioni da vendere. Quel giorno lo ricorderà per anni.
Era un istrione. Litigava col mondo intero. Storiche le discussioni in aula con l’avversario Gianni Turrisi che spesso e volentieri continuavano in pizzeria mentre il palazzo “guidato da una generazioni al tramonto”, come titola un settimanale – “suona la ritirata”.
In quattro anni, dimissioni, rinunce e surroghe a non finire. E il crollo dei partiti storici ritornati in auge sotto mentite spoglie. La prima giunta nata a seguito delle elezioni del ’90 vede come vicesindaco Martano e assessori Arena, Borgia, Caggia, De Jaco, Fiore e Rima. Quattro anni dopo vicesindaco sarà Torricelli, e assessori Bambi, Carpentieri, De Filippi, Borgia e Foresio. Rimescolamento totale e nessuno che molli la presa e rimettere tutto in mano al popolo, con l’elezione diretta del sindaco già entrata in vigore.
«Lui – ricorda il figlio Giampiero – rappresentava la legalità assoluta.

Nasce e muore in una casa in affitto». E quando abbandona il campo sarà per sempre perché – ripeteva – «la qualità vera di una persona la si vede quando non gestisce più alcun potere».

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