L'intervista a Stefano Antonelli, curatore della mostra di Banksy a Lecce: «L'identità non è più un mistero, a Bristol lo sanno tutti»

L'intervista a Stefano Antonelli, curatore della mostra di Banksy a Lecce: «L'identità non è più un mistero, a Bristol lo sanno tutti»
di Eleonora MOSCARA
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Lunedì 9 Ottobre 2023, 07:02 - Ultimo aggiornamento: 10 Ottobre, 20:47

«Banksy è Robin Gunningham». La conferma è ufficiale, ma l'identità dello street artist più famoso del mondo pare non sia un mistero già da tempo. L'anonimato di Banksy è balzato nuovamente agli onori della cronaca per via della denuncia della quale dovrà rispondere molto presto davanti ai giudici. L'accusa è di diffamazione, ma i contorni della vicenda non sono ancora chiari per il massimo riserbo tenuto finora sul processo. L'uomo che avrebbe avviato l'azione nei confronti di Banksy, stando a quanto riferito dal Daily Mail, sarebbe Andrew Gallagher, imprenditore musicale 56enne ed ex organizzatore di rave negli anni '90, ora nel mercato della street art. Dopo varie ricerche condotte dalla Queen Mary University di Londra e dal The Sun nel 2008, anche gli studiosi Gianluca Marziani e Stefano Antonelli, curatori della mostra leccese in corso nello spazio espositivo delle Mura Urbiche e tra i maggiori esperti al mondo su Banksy, raccontano e confermano l'identità dell'artista attraverso il ricco lavoro di indagine svolto direttamente a Bristol, città di appartenenza di Robin Gunningham, tutto raccontato nella monografia pubblicata nel 2021.

E intanto nelle scorse ore è comparsa una nuova opera, questa volta a Londra.

E' una critica al sistema produttivo basato sull'utilizzo dei "robot" e probabilmente delle macchine più in generale. Con lo slogan "Un altro mondo è possibile", che fu già adottato dal popolo di Seattle e di Genova nei primissimi anni 2000. 

Stefano Antonelli, come nasce la curiosità di andare in fondo al mistero sull'identità di Banksy?
«Non è un mistero. Nel mondo delle arti non è una novità l'anonimato. Nel caso di Banksy deriva dalla pratica dei graffiti che, in Gran Bretagna, è illegale con conseguenze reali: in seguito alla famigerata "Operazione Andersen" ad esempio arrestarono molte persone, a Tom Pingle in arte Inkie fu comminata una sanzione di 650mila sterline, oltre al carcere. Alla luce di questa operazione, la clandestinità sembra essere la scelta migliore».
L'idea che dietro di lui si celasse Robin Gunningham circolava da un po' ma senza conferme. Soprattutto da parte sua. Come avete capito che si trattava di lui?
«Siamo stati sul posto, abbiamo ascoltato molte persone come John Nation che lo ha cresciuto quando lavorava come animatore di una parrocchia di quartiere che sottraeva i ragazzi dalla strada, avviandoli all'arte; abbiamo ascoltato la direttrice del "Bristol museum" che lo ha incontrato più volte. A Bristol tutti sanno che lui è Robin Gunningham».
Come avete più volte dichiarato Banksy è «un artista che ha deciso di consistere invece di esistere», perché questa scelta secondo lei?
«Banksy nonostante il suo anonimato, è riuscito a raggiungere la vetta dell'arte contemporanea e questo è un fatto unico nella storia. In cosa consiste ciò che esiste è un concetto di origine spinoziana, Banksy rappresenta il potere della consistenza che si oppone al piccolo potere dell'esistenza rappresentata. La sua identità ci dice molto dell'artista che ha cercato di far passare un messaggio tanto chiaro quanto speciale: contano più le opere della mia vita. Nonostante ciò, la nostra curiosità è inesauribile e se qualcuno si sottrae noi lo cerchiamo».
Banksy ha sottoposto la sua arte direttamente al pubblico di strada, senza passare da critici o da più o meno rinomate gallerie. A suo avviso è una critica alla filiera dell'Artworld?
«Il mondo dell'arte presenta delle contraddizioni e delle forzature come tutti gli ambiti interpretativi. Egli critica la parte commerciale di questo mondo, esattamente come hanno fatto altri artisti nella storia che hanno cercato di rendere l'arte meno elitaria. Banksy però fa molto di più: mette l'arte direttamente nella vita ordinaria delle persone, come non era mai accaduto, ottenendo una postura, a livello comunicativo, che nemmeno un leader mondiale è riuscito mai ad avere. Banksy non cammina sul red carpet ma, sul marciapiede come tutti e questo fa di lui, uno di noi».
Se si dovesse presentare davanti ai giudici, rivelando la sua identità, finirà il mito?
«Io credo di no, Banksy ha una posizione e un mercato ben stabile e fondato. Il suo lavoro non è basato sulla questione dell'identità. Una conseguenza pratica reale che potrebbe verificarsi, invece, una volta costretto a rivelare il suo nome, potrebbe essere relativa all'esercizio del copyright. In questi 20 anni il giro d'affari sotto il suo nome è stato enorme, ma i suoi incassi sono pervenuti, per sua scelta, solo dalle vendite privatissime alle quali partecipano delle persone del mondo aristocratico britannico, della finanza. Tra i suoi collezionisti, ricordiamo, Lord Spencer Churchill pronipote di Leonard Winstron Churchill».
Cosa ha amato di Banksy?
«C'è una nemesi tra il suo personaggio e quello di Robin Hood della quale mi piacerebbe parlare in maniera più approfondita, prima o poi. Il senso comune è proprio quello di rubare l'arte ai ricchi per darla ai poveri, figura tipica nella storia della Gran Bretagna che visse nel 600 la questione dei commons, i difensori della terra, giovani cavalieri che andavano contro i nobili e Banksy va nel solco di questa tradizione culturale».
Se dovesse incontrarlo, cosa gli chiederebbe?
«Vorrei sapere come ha fatto, in questi 20 anni, a resistere alla tentazione della replica. Banksy vive in un mondo di contraddizioni, scrive che il copyright è per perdenti ma minaccia guai a chiunque decida di infrangere il suo. La realtà ci restituisce un artista ironico, integro ma non radicale che ride sulle disgrazie del nostro mondo».
 

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