MISURATA - Nel Paese allo sbando, senza più controlli o quasi sulle frontiere

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Sabato 14 Febbraio 2015, 05:09
MISURATA - Nel Paese allo sbando, senza più controlli o quasi sulle frontiere al sud, con combattimenti che imperversano nei dintorni di Sebha, la strada per arrivare a Tripoli e da lì verso le coste da dove partono le navi della speranza è sempre più preda di trafficanti senza scrupoli e funzionari corrotti. Nuovi schiavisti che armi alla mano, obbligano ad imbarcarsi centinaia di migranti pur sapendo di mandarli incontro alla morte. E sono tantissimi gli africani che, arrivati in qualche modo fino alla costa, vengono sfruttati come forza lavoro a basso costo nei campi, nelle industrie, come uomini di fatica o muratori.
Spesso la paga consiste in pochi dinari al mese, del cibo e un giaciglio dove buttarsi a dormire in attesa di mettere insieme i soldi per comprarsi un posto sulle navi della speranza. I centri di detenzione sono pieni di migliaia di migranti, presi a caso per le strade della capitale e delle città vicine. Poco distante da Misurata, a Gioda, si trova la scuola di Al-Kararim, trasformata con sbarre e lucchetti in una prigione di fortuna. Qui sono ammassate 800 persone: donne e uomini, bambini compresi. «La detenzione qui è una tappa obbligatoria prima del rimpatrio - dice il responsabile del centro - li raduniamo tutti insieme, cerchiamo di comunicare con le loro ambasciate e vediamo se si possono rimpatriare con convogli di autobus verso i confini, ma la guerriglia in molte zone del Paese ci ha messo in difficoltà: non possiamo portare queste persone nel deserto per questioni di sicurezza. Così preferiamo tenerli qui».
Nel centro le persone sono ammassate per mesi in aule svuotate dei banchi e riempite di materassi sudici. I bagni sono in condizioni disastrose. Il centro è su due piani. All'ingresso in due stanze vengono alloggiate donne e bambini, anche neonati. Sopra ci sono solo uomini. La maggior parte viene dall'Africa subsahariana: Senegal, Burkina, Niger, Gambia, ma anche dal Corno d'Africa. Somali, etiopi, eritrei. Più qualche arabo, egiziani e un paio di pachistani presi, dicono, perché non avevano il visto d'ingresso sul passaporto. Qualcuno si lamenta per le condizioni di salute. Un uomo sta male. «Non c'è il medico», urla un altro. «Non ci sono medicine, se stiamo male ci danno una pastiglia e ci rimandano in cella». Nel giardino della scuola un prefabbricato è stato trasformato in ambulatorio. Ma il medico viene solo una o due volte la settimana e deve visitare decine e decine di persone. Gli scaffali sono semivuoti. Al piano superiore la gente si accalca per parlare. Si lamentano che a molti sono stati sottratti i documenti e gli effetti personali. Non possono telefonare per avvisare i parenti del loro stato di detenzione. Don Mussi Zerai, candidato al premio Nobel per il 2015, è un sacerdote eritreo di Asmara, profugo in Italia e direttore dell'Agenzia Eritrea Habeshia. Da anni si batte per i diritti dei migranti e per denunciare i trafficanti di uomini.
«C'è un giro strano - dice il sacerdote - molti mi raccontano che i libici vengono dentro i centri di detenzione a prendere decine di uomini per farli lavorare nei campi o nell'edilizia o peggio, per usarli come facchini dei combattimenti». Schiavi di guerra in un Paese senza diritti.
Cr. Tin.

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