Frecciarossa, il peso perso della politica sul territorio

di Claudio SCAMARDELLA
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Domenica 27 Settembre 2015, 13:15 - Ultimo aggiornamento: 13:35
Non molto tempo fa, in presenza di un problema serio nel proprio collegio elettorale, un deputato o un senatore eletto dal popolo, o un segretario provinciale di un partito di massa, alzava il telefono, chiamava la batteria del Viminale e chiedeva di essere messo in contatto subito con un sottosegretario, un ministro o anche con il presidente del Consiglio: “Presidente, qui c'è una forte mobilitazione popolare contro una decisione ingiusta di un'azienda pubblica. Il governo deve intervenire, non possiamo essere assenti. Il nostro silenzio diventa complice di questa scelta scellerata e gli elettori chiederanno conto a noi. Convochiamo subito un incontro per dare una risposta al territorio”.



E l'incontro, almeno l'incontro, si sarebbe svolto nel giro di poche ore. Accadeva non molto tempo fa. Accadeva al Nord e, soprattutto, al Sud, quando la rappresentanza parlamentare non designata ma eletta, riusciva ad alzare la voce e a portare le istanze del territorio, anche quello più periferico, a Roma.



Oggi non accade più. E non c’entra nulla il profilo e lo spessore meno autorevole delle classi dirigenti territoriali rispetto ai decenni passati. O, meglio, il declino delle leadership meridionali nella politica da vent'anni a questa parte, oltre ad essere la conseguenza della prolungata e rozza propaganda leghista cominciata negli anni ‘90, è figlio di un disegno lucido e non casuale che ha depotenziato a poco a poco la forza e il peso della politica sui territori a vantaggio delle leadership nazionali esplose e legittimate, anche nella ricerca del consenso, attraverso le piazze mediatiche.



I meccanismi di selezione del ceto politico e, al tempo stesso, i meccanismi decisionali della macchina statale, grazie allo sconcio di una legge elettorale come il Porcellum (solo parzialmente corretta dall'Italicum) e al mito della semplificazione da raggiungere attraverso quella bruttissima parola che è la “disintermediazione”, sono stati completamente stravolti fino a inverarsi in una piramide rovesciata con la base in alto (il centro) e il vertice in basso (la periferia), semplice terminale di decisioni non discutibili. Con una partitocrazia senza più partiti, con sindacati al minimo della forza e della credibilità, con rappresentanze delle forze sociali trasformate sempre più in organizzazioni lobbistiche e corporative, piuttosto che impegnate in progetti di interesse generale, siamo così giunti a una “desertificazione” politica sui territori che ha aperto la strada al processo in corso di una “desertificazione” del cosiddetto giardino istituzionale (l'arretramento dello Stato in periferia con la soppressione delle sue articolazioni territoriali).



Il risultato è che la distanza centro-periferia si sta notevolmente accentuando, e con essa si è venuto a creare uno spaventoso vuoto di potere e di rappresentanza dei territori. Una deriva molto pericolosa che reca in sé il virus di leadership sempre più solitarie e lontane, dell'uomo sempre più solo al comando, di una democrazia che tende ad assumere i tratti distintivi dell'autocrazia. Basta consultare un normalissimo manuale di scienza della politica per comprendere quanto sia stata storicamente importante, per non dire decisiva, la “mediazione” delle fratture territoriali centro-periferia e città-campagne nel funzionamento e nella stabilizzazione dei sistemi democratici moderni. Anche molto più delle altre fratture, come quelle sociali ed economiche (capitale-lavoro, agricoltura-industria) e culturali (Stato-Chiesa, nazionalismo-internazionalismo). Non a caso. A ben riflettere e ricostruendo la storia recente, l'esplosione dei populismi, la diffusione dell'antipolitica, l'astensionismo generalizzato, la democrazia sempre più senza popolo affondano le radici più profonde proprio nella crisi di rappresentanza dei territori. Che trova ulteriore benzina nelle paure e nelle incognite prodotte dalla globalizzazione, oltre che nella lontananza e nel crescente autoritarismo di organismi sovranazionali che non sono nemmeno legittimati dal voto popolare.



Da questo punto vista, la vicenda del Frecciarossa, sorta in una terra di frontiera, è emblematica. Gli schiaffi, le offese, gli sgarbi istituzionali dei vertici delle Fs nei confronti di un'ampia fetta di territorio e della sua comunità sono soltanto una parte del problema. La più sconcertante, certo, ma solo una parte.



Dal 12 settembre, giorno dell'inaugurazione della Fiera del Levante e dell'impegno assunto in pubblico da un sottosegretario alla Presidenza del Consiglio di convocare un incontro con Trenitalia e la Regione perché “è giusto che il Frecciarossa arrivi fino a Brindisi e a Lecce” (parole del sottosegretario Claudio De Vincenti), il governo è rimasto non solo assente e in silenzio, ma è diventato irraggiungibile.



E la rappresentanza parlamentare del territorio, che pure ha preso lodevoli iniziative come interrogazioni, richieste di audizioni nelle commissioni, lettere al premier, non è riuscita ancora ad ottenere ciò che non si nega mai a nessuno: un incontro, semplicemente un incontro affinché vengano messe sul tavolo le carte, le cifre e le ragioni di una scelta che ancora oggi appare del tutto ingiustificata. Se non si parte da qui, se non si coglie la gravità di questo mancato passaggio, non si va molto lontani.

Cosa fare, dunque? Primo: quell'incontro deve essere convocato. Subito. Sotto la spinta e la pressione dei 14 deputati e dei 9 senatori di Lecce, Taranto e Brindisi. Da domani mattina. Si riuniscano prima di ripartire per Roma, diano vita a un comitato permanente di consultazione: non è poi molto difficile riunire 24 parlamentari. E decidano di andare tutti insieme a Palazzo Chigi, parlino con De Vincenti se proprio risulterà impossibile incontrare il ministro Delrio o il premier Renzi. E alzino la voce. Chi si tira fuori, chi non vuole “mischiarsi” in questa battaglia, magari per garantirsi una propria visibilità e ostentare propria diversità, ne risponderà poi agli elettori.



Secondo: l'ottima iniziativa dell'assemblea dei sindaci in Provincia venerdì scorso, con la partecipazione di eurodeputati, parlamentari nazionali, consiglieri regionali, provinciali e comunali di tutto il Grande Salento non resti isolata. È stato un bel vedere quella sala di Palazzo Celestini piena di sindaci stretti nelle fasce tricolore. Se il governo continuerà a cincischiare, se l'audizione dell'Ad di Fs in Parlamento, prevista per martedì, si rivelerà una sterile passerella di Elia con l'illustrazione delle “magnifiche sorti e progressive” dei piani di investimenti dell'azienda al Sud e in Puglia (confidiamo nella forza e nell'intelligenza dei nostri parlamentari perché venga risparmiata ai cittadini salentini almeno quest'altra offesa), i sindaci tornino a riunirsi in settimana per un'iniziativa ancora più forte ed eclatante, tale da attirare l'attenzione di Renzi.



Forse non avrà lo stesso effetto della finale Pennetta-Vinci a New York, forse il premier non prenderà subito un aereo per venire qui, ma anche questo servirà ad aprire gli occhi agli elettori su chi preferisce declinare solo slogan sull'Italia che dice sì, sull'Italia della (s)volta buona, sull'Italia che vince, negando poi a una terra in via di sviluppo le stesse opportunità e gli stessi diritti garantiti altrove.



Terzo: i ventimila cittadini che hanno sottoscritto in due settimane la petizione lanciata da Quotidiano, scrivendo commenti di grande profondità, e le altre decine di migliaia di salentini che condividono questa battaglia ma non hanno avuto modo di firmare, devono essere pronti a una nuova e più forte mobilitazione. Anche di piazza. Per supportare ancora di più la rappresentanza parlamentare e istituzionale in questa battaglia. Per spalancare le porte rimaste finora chiuse a Roma. Se nelle prossime ore non si uscirà dallo stallo, organizzeremo per il fine settimana una grande manifestazione di popolo, con i gonfaloni di tutti i Comuni. Ci stiamo preparando per essere pronti.

Qualcuno dirà: se occorre una mobilitazione di questa portata per ottenere un servizio tutto sommato normale, se sono necessarie 20mila firme e una campagna martellante per veder riconosciuto un semplice diritto di cittadinanza, vuol dire che stiamo messi davvero male quaggiù. Già, è così: siamo messi davvero male.



Ma sta proprio in questo paradosso la chiave della battaglia, l'importanza e la “strategicità” della posta in palio. Se il Frecciarossa - come noi continuiamo a credere, anche più di ieri - arriverà fino a Lecce, non sarà una vittoria, ma un rimedio a una clamorosa ingiustizia (prima di combinarne altre a Roma o a Bari forse ci penseranno un po' di più, vista la grande reazione del territorio). Al contrario, se il Frecciarossa continuerà a fermarsi solo a Bari sarà una sconfitta storica per tutto il Salento. La differenza tra i due esiti è evidente. Chi non lo ha ancora capito, rifletta.