Giuliano Sangiorgi: «Cantiamo un inno alla vita. Oggi più che mai»

Foto di Daniele Coricciati
Foto di Daniele Coricciati
di Valeria BLANCO
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Sabato 21 Novembre 2015, 15:35 - Ultimo aggiornamento: 13:00
Il palco trema, spinto dall’adrenalina dei fan in attesa. Prima di metterci il piede sopra, Giuliano Sangiorgi guarda la foto di papà Gianfranco, che non c’è più. Ma è proprio dal buco nero della sua scomparsa che è nato quel lungo, consapevole, entusiastico inno alla vita che è “La rivoluzione sta arrivando”, album già disco di platino e ora tour nei palazzetti con un sold-out dopo l’altro. E che stasera, domani e martedì fa tappa al Palaflorio di Bari.



Un inno alla vita, nato dalla prostrazione davanti alla morte, di cui dopo la strage di Parigi si sente più che mai il bisogno.

«Purtroppo lo spirito di questo album si adatta molto bene a quello che stiamo vivendo in questi giorni. Questo disco nasce dalla sensazione di morte che per la prima volta ho provato quando è mancato mio padre. Ma è anche una reazione consapevole, non istintiva, alla morte. Ed è un disco di vita. Ho capito che questa mia intima rivoluzione può essere una rivoluzione condivisa, perché i piccoli cambiamenti all’interno di noi, se condivisi, diventano grandi. La rivoluzione non sta certo in un disco, ma nella bellezza. Un bel disco può essere un seme per piantare in un grande terreno quella rivoluzione esistenziale positiva che, soprattutto in questo periodo, tutti ci aspettiamo. E la rivoluzione può arrivare solo se si mette la vita al centro di tutto. La vita in assoluto, sciolta da qualsiasi vincolo. La vita che va difesa da qualsiasi attacco come fosse materia prima da salvare».



“La rivoluzione” è un album molto spirituale. Qual è il tuo rapporto con la fede?

«Se in una canzone scrivo “siamo sostanza che non può sparire”, non posso non credere nell’esistenza di uno spirito. Credo in una parte spirituale che rimane mia, non ne parlo mai. Di certo la fede, per me, non è andare in chiesa o alle processioni».



E chi o cosa è, oggi, rivoluzionario?

«Rivoluzionarie sono le famiglie coraggiose che scappano dall’Isis e dalla morte e con coraggio cercano di rivoluzionare la vita propria e dei propri figli, nonostante spesso la loro richiesta d’aiuto non sia ascoltata. In questi giorni stiamo facendo un po’ di confusione, perché loro scappano dalla stessa minaccia che ha ucciso tante persone in Francia e invece vengono guardati con sospetto e soggetti a tante recriminazioni per colpa della nostra fobia del diverso».



Dopo i fatti di Parigi, molti artisti hanno annullato i tour europei. È stato difficile, per voi, tornare sul palco?

«Per fortuna abbiamo avuto due giorni di stop, altrimenti forse non ce l’avremmo fatta. Tornare sul palco è stato difficile, ma poi la musica ha spazzato via tutta la tristezza. La gente ha paura perché si trova a un concerto, situazione molto vicina a quella di chi è stato ucciso. Mi piace però leggere i sold-out non solo come palazzetti pieni, ma come voglia di vivere a tutti i costi. Non possiamo fermare la musica. Dobbiamo provare ancora ad esserci, a vivere, a portare avanti il trionfo della bellezza. A rimettere al centro la vita, senza colore e senza localizzazione. La vita non si giudica, come invece si sta facendo in questi giorni».



Scenografie in 3D, tour maestoso anche con tre date nella stessa città, uno spettacolo di quasi tre ore: che show bisogna aspettarsi?

«È come se avessimo sintetizzato tutti gli anni di esperienza live in questo tour. I nostri sei avatar, i “rivoluzionauti”, arrivano con il “bottergibile”. È uno show molto interattivo rispetto al disco, perché i disegni dell’album prendono vita e, all’inizio del live, è come se noi suonassimo la soundtrack di questo cartone animato. Abbiamo creato un equilibrio giusto tra arte, ottica, suoni. C’è una parte teatrale con brani rivisitati in chiave blues, musiche inedite che introducono gli assoli, fino al 3D della parte finale, in cui io interagisco con i nostri avatar giganti. È la sintesi che abbiamo sempre cercato nei nostri spettacoli».



Uno show imponente, con 22 brani, più medley e mash-up: come avete scelto i brani da mettere in scaletta?

«Ogni nuovo album porta con sé un mood, attrae naturalmente le canzoni che hanno un appeal coerente: mettere insieme una scaletta non è complicato. Questo live mette insieme i grandi successi con i nuovi brani che, vista l’accoglienza del pubblico, sono già dei classici. È una grande festa e per noi è bellissimo vedere il rinnovarsi della carica di affetto che ci avvolge».



Le tappe baresi, quelle “casalinghe” in mancanza di una data a Lecce, hanno un sapore particolare?

«Andiamo verso il triplo sold-out: una conferma di amore della nostra terra che ci riempie di gioia. Bari è ogni volta esplosiva, fa saltare i palazzetti. Lecce è stata esclusa dalla parte invernale del tour perché non ha una struttura dove accoglierci. Se saremo in tour in estate faremo di tutto per tornare allo stadio».



Com’è il tuo rapporto con i tanti emulatori?

«Non mi so riconoscere negli altri, non capisco mai se mi stanno emulando perché non c’è molto da confondersi: sono questo e sono io. E basta».



I tuoi testi sono poesie ma anche tu, come Francesco De Gregori, non ami essere definito poeta.

«Non credo di scrivere poesie. Le mie canzoni a volte sono pezzi di vita vissuta, a volte pezzi di vita che mi attraversa senza essere mia, sono parole di vite che non ci sono più, ma poco riguardano la mia capacità di scriverle. L’ispirazione non ha un merito, se non quell’istintività che ti permette di acchiappare dall’iperuranio l’idea che sta passando in quel momento perfetto della giornata. C’è una cosa che ti esplode nella pancia, nella bocca. È un attimo. La catturi e sei strafelice. Sembra tutto celestiale, ma è molto più terreno perché un testo cresce con te, si sporca della tua vita. Io non lavoro con la musica, la sento sottocutanea, scavata nella carne. Non sento il peso, ma neanche il merito, di quello che faccio».





Dopo i duetti con Jovanotti e Dolores o’Riordan e i testi scritti per Vecchioni, Mina, Celentano, Patty Pravo, c’è ancora un sogno da realizzare?

«Mi sento ancora pieno di cose da dire. Ho allestito un piccolo studio nella mia camera da letto: le sere in cui non siamo sul palco, scrivo. Stanno nascendo tante cose nuove proprio in questi giorni».



(foto di Daniele Coricciati)
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