E io non mi intimidisco: Totò e la giustizia, tra satira e buonsenso

E io non mi intimidisco: Totò e la giustizia, tra satira e buonsenso
di Roberto TANISI
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Lunedì 17 Aprile 2017, 17:29 - Ultimo aggiornamento: 18 Aprile, 19:35
Totò e la Giustizia. Non è il titolo di un film inedito, ma potrebbe essere il titolo di una piccola antologia, necessariamente incompleta, di gag e battute del celebre comico su giudici, avvocati e processi, insomma su tutto quel mondo che, in estrema sintesi, definiamo Giustizia. Mi è capitato, in questi giorni di celebrazioni, di rileggerne alcune, per cogliervi ora una grande umanità, ora tutta la forza corrosiva, demistificante, propria della satira migliore.
Il principe Antonio de Curtis, in arte Totò, morì improvvisamente il 15 aprile 1967 ed altrettanto improvvisamente gli italiani sembrarono scoprirne la grandezza, appellandolo, giustamente, “principe della risata”. Ai suoi tre funerali (a Roma e a Napoli, in cattedrale e al Rione Sanità) parteciparono milioni di persone, testimoniando, così, il grande affetto del pubblico per l’artista, a differenza della critica, che, invece, lo aveva sempre bistrattato.
Cinquant’anni dopo ci accorgiamo che Totò, in realtà, non ci ha mai lasciati, è rimasto con noi per farci ridere dell’Italia di quegli anni e - non sembri paradossale - anche dell’Italia di oggi.
I suoi film, trasmessi sovente in tv, sono sempre fra i più visti, e a sorridere non sono solo gli “anziani” del secolo scorso, ma molti ragazzini di oggi, i cosiddetti “millennials”. Perché Totò non è un attore del passato, tipo Buster Keaton o lo stesso Charlie Chaplin, ma è un attore di oggi: un incredibile paradosso, se solo si pensa che egli stesso riteneva di aver fallito la propria missione: “Non ho fatto nulla, noi attori siamo solo venditori di chiacchiere”, ebbe a dire una volta. Questo, per essere stato oggetto di critiche spesso ingenerose, se non supponenti, da parte di giornalisti e intellettuali che, al massimo, gli riconoscevano le doti di un guitto. “Avanspettacolo della peggior qualità, farsa napoletana urlata e non recitata”, si legge, per esempio, in una recensione dell’epoca, relativa a “Totò, Peppino… e la malafemmina”, un film considerato oggi un autentico cult. O, ancora, rispetto a “Totò lascia o raddoppia”: “Il film non ha una trovata originale, è solo un arruffato e gratuito canovaccio dove Totò è lasciato libero di improvvisare e dar fondo al più sciocco repertorio di giochi di parole”, laddove, invece, proprio la capacità di improvvisare, di recitare secondo gli stilemi della commedia dell’arte, è oggi riconosciuta come uno dei grandi meriti del comico napoletano.
Per non parlare, poi, della censura che – sembra incredibile – mutilò anche alcuni dei suoi film, non tanto per ragioni legate al sesso (ma non mancarono neppure quelle), quanto per battute o situazioni considerate “politiche” – come, semplicemente, fare il nome del ministro Scelba, nel film “Totò e le donne” - o reputate irridenti verso la religione cattolica, come il ripetere in modo compulsivo “Requiem aeternam” nel film “Totò 47 morto che parla”. Ma il film più massacrato dalla censura fu “Totò e Carolina” di Mario Monicelli, su soggetto di Ennio Flaiano. La storia di una ragazza incinta, arrestata dal poliziotto Totò durante una retata contro le “donne di vita” e della quale egli, poi, si prende cura, impedendone il suicidio, apparve decisamente sconveniente per la bigotta “morale” dell’epoca.
Ma, tornando alla Giustizia, tantissime sono le situazioni e le battute, ora bonarie e ironiche, ora sarcastiche e feroci, che si possono cogliere nei suoi film.
Ne riporto solo qualcuna.
“Il suicidio è un lusso, i poveri non hanno neanche la libertà di uccidersi” (da “Totò e Carolina”).
“A quest’ora in Questura dal Questore?” (da “Totò le Moko”).
“Mi stanno per arrestare, è una questione di secondi, anzi di secondini” (da Totò le Moko”).
“Vado soggetto ad amnistie cerebrali” (da “Totò cerca moglie”).
“Ehi, Vostro Onore. Salutame a soreta!” (da “Totò e Peppino divisi a Berlino”).
“Come lo facciamo questo carcere? I muri come li farebbe, lei? Alti, molto alti. Ci avrei scommesso. Ma i muri bisogna farli bassi, prima di tutto per economia e poi per dare aria ai detenuti. I detenuti hanno bisogno di ossigeno, date ossigeno al detenuto, perché il detenuto ossigenato rende il doppio. Avete paura che evada? Ah, la solita storia, ma finiamola con queste maldicenze! Il detenuto è un galantuomo non se ne andrà neanche con le cannonate (anche perché, all’epoca, in carcere si poteva avere un pasto sicuro: n.d.r.). E abolite il muro divisorio tra il reparto maschile e quello femminile. Se anche dovesse scapparci un carceratino, credete a me, non guasta, incrementiamo la demografia carceraria” (da “Totò terzo uomo”).
“Signor Pretore, metta in moto l’ingranaggio della legge, lo metta in moto… un po’ di moto fa sempre bene” (da “Totò terzo uomo”).
“Io ladro sono e ladro resto, non derogo. Ladri si nasce, facchini si diventa” (da “Che fine ha fatto Totò baby?”).
“Sono vent’anni che lei dice di essere un perito, ma non perisce mai. Ma perisca una buona volta, mi faccia il piacere” (da “Totò contro i quattro”).
“La vita… è una cambiale” (da “Signori si nasce”).
“Sant’Agostino si interessava di tasse e ha dichiarato che se i tributi sono troppo alti, non è peccato non pagarli. Io obbedisco a sant’Agostino, il patrono dei tartassati, per non arrivare nudo alla meta” (da “I tartassati”).
“Basta con questo incenso! Quante volte devo dirti che sono incensurato?” (da “Totò contro Maciste”).
“Io sono testimone oculare… Veramente io non ho oculato niente, ma loro dicono così” (da “Siamo uomini o caporali?”).
“I caporali sono appunto coloro che sfruttano, che tiranneggiano, che maltrattano, che umiliano. Questi esseri invasati dalla loro bramosia di guadagno li troviamo sempre a galla, sempre al posto di comando, spesso senza avere l’autorità, l’abilità o l’intelligenza, ma con la sola bravura delle loro facce toste, della loro prepotenza, pronti a vessare il pover’uomo qualunque” (da “Siamo uomini o caporali?”).
Sono solo poche battute, pescate in un mare magnum. Ma vi si coglie, oltre ad una notevole vis comica, soprattutto una grande umanità, che porta il principe Totò a stare dalla parte dell’umanità dolente, degli ultimi, non importa se con qualche conto in sospeso con la legge, perché… bisogna pur vivere. La stessa umanità del Pretore Lo Russo (un grande Peppino De Filippo) nel film “Un giorno in Pretura” (di Steno, altro grande misconosciuto del nostro cinema, di cui ricorre quest’anno il centenario dalla nascita), che, prima di entrare in udienza, rivolto al busto di Cicerone, esclama: “Caro Cicerone mio, condannare un criminale è facile, ma io sono un piccolo pretore e devo giudicare la piccola gente!”.
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