Simona Toma: così ho inventato Ada la casalinga coraggiosa

Simona Toma: così ho inventato Ada la casalinga coraggiosa
di Claudia PRESICCE
3 Minuti di Lettura
Martedì 8 Settembre 2015, 23:15 - Ultimo aggiornamento: 23:50
La storia di Ada, leccese cinquantenne che fa le pulizie nelle case dei “ricchi”, vola sulla semplicità di una scrittura “parlata” approdata nelle pagine di un libro. Il titolo è “Mi chiamano Ada” e, dalla prima volta in cui ha scritto su un blog lettere indirizzate a “Paolo mio” a questo romanzo appena uscito con Sperling & Kupfer, Simona Toma , l’autrice, ha visto evolversi sotto le sue stesse mani l’archetipo della casalinga impegnata a barcamenarsi in tempi di crisi.



Simona, cominciamo dall’inizio, il personaggio di Ada nasce da uno sguardo acuto sulla realtà leccese…

«È il frutto di quello che ho sempre respirato nella realtà della mia provincia, ma potrebbe essere un archetipo della casalinga di oggi, di Como come di Messina. Infatti le dinamiche familiari sono di estrema attualità: Ada ha il marito esodato e si ritrovano senza lavoro a 50 anni. Lei si rimbocca le maniche e va a fare pulizie, i figli di 25, 30 anni sono quelli più colpiti, e poi ci sono pure gli anziani a carico. La struttura e il meccanismo di questa famiglia sembrano ripetibili in ogni altra provincia italiana».



Ma la storia da dove arriva?

«La genesi è questa: ho inventato il personaggio della casalinga leccese nel maggio 2012. L’idea mi è venuta per rispondere all’allora candidato sindaco di Lecce Paolo Perrone che sul suo blog aveva invitato le casalinghe a scrivergli. Mi è scoppiato così tra le mani questo personaggio della casalinga che si è portata dietro tutto un mondo. Le risposte sul web sono piaciute ed il mio amico editor Francesco Gungui, che si era occupato del mio primo libro Mondadori “Da questo libro presto un film”, mi ha consigliato di riprendere quelle lettere e buttare giù la storia. Sono tornata da Milano a Lecce e, in poco più di un mese, ho scritto tutto il libro, mentre facevo la vita di Ada andando con la “32” (l’autobus, ndr) da San Cataldo al centro storico o ascoltando i discorsi dei vecchietti. Oppure mi mettevo inutilmente in fila all’ufficio postale solo per acchiappare qualche discorso dalle casalinghe e dei pensionati. E andavo al cimitero come Ada ».



E poi?

«L’intera storia è come se l’avessi avuta sempre in testa, tra le dita. Ha acquistato subito una sua autonomia. Ada è una donna fattiva e pratica, felice di andare a fare le pulizie nelle case dei ricchi del centro storico perché per lei è come fare un viaggio esotico quotidiano e respirare in quelle ore un’aria migliore rispetto a quella della sua casa alla 167. Coltiva sempre il sogno del viaggio che non ha potuto fare a 20 anni con la sua amica: andare in Grecia che è un posto lontano, ma vicino a casa sua per non perdere il controllo delle cose. Ada ha piccoli sogni, molto concreti».



Come nasce il linguaggio dela protagonista, così semplice da far passare tante cose importanti con leggerezza, intriso di ironia?

«Ada non poteva che parlare così, è la sua lingua ed è venuta fuori in maniera spontanea. Uso una struttura dialettale, ma poi Ada si esprime in italiano al netto di poche espressioni gergali. Non sarebbe stata credibile se fosse stata una lingua più letteraria. Arrivare a quella semplicità ovviamente implica un grande lavoro, che incredibilmente non è stato toccato dall’editing pur essendo la mia editor di Vercelli. L’ha lasciato intatto nella struttura e nel linguaggio».



Si sente il lavoro linguistico di una lettrice onnivora, è vero?

«Sono autrice per caso, ma da sempre sono una disperata lettrice e ho letto qualunque cosa. Ma tutti i miei libri hanno stili differenti, perché non ho modelli di riferimento e per questa feroce attività di lettura. Tutti i libri che ho letto mi hanno insegnato qualcosa. Poi ci metto la ricerca, per esempio nel mio libro precedente “Un bacio dall’altra parte del mare” il protagonista è un marocchino e questo ha comportato suggestioni linguistiche diverse. In quel caso mi ha aiutato la frequentazione di un mio amico marocchino. Comunque scrivere presuppone sempre un grande lavoro e ogni incontro e ogni esperienza ti ritornano in mano mentre scrivi, ma al di là di tutto esiste una tecnica e non ci si improvvisa. Rispetto al primo libro in cui ero un po’ selvaggia, mi hanno insegnato tanto e il mio saper scrivere spontaneo è stato molto disciplinato».