Quella strana sfida tra il monaco Pantaleone e il principe Raimondello

Il mosaico della cattedrale di Otranto e gli afgfreschi della basilica di Santa Caterina a Galatina
Il mosaico della cattedrale di Otranto e gli afgfreschi della basilica di Santa Caterina a Galatina
di Renato MORO
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Domenica 2 Luglio 2017, 22:22 - Ultimo aggiornamento: 13 Luglio, 12:20
Dai ruderi del monastero di San Nicola di Casole si vede il mare e nei giorni in cui il cielo è pulito, all’alba, ti sembra di toccare con un dito le montagne albanesi. È il mare di Enea che fuggiva da Troia distrutta, dei coloni greci, dei romani, dei bizantini, dei veneziani e dei turchi. Lo stesso mare che il monaco Pantaleone guardava ogni volta che usciva dal monastero per andare a Nord, dove la costa si abbassa e la baia accarezza le case.
A Otranto Pantaleone ci andava per una ragione che lo avrebbe consegnato alla storia. Fu lui, infatti, a realizzare l’Albero della vita, il grande mosaico che riempie il pavimento della cattedrale, una sorta di enciclopedia del sapere medioevale, unico al mondo e in tutto il mondo studiato. Due anni fa, all’Expo di Milano, furono proprio alcune immagini del monaco di Casole, riprodotte dagli studenti di un liceo di Ravenna, a rappresentare l’Italia insieme a una copia del David di Donatello. A Otranto oggi si aspettano che l’Unesco riconosca quel mosaico e la sua cattedrale “patrimonio dell’Umanità”, ma la strada è difficile e il lavoro da fare è tanto perché non è che bastino un paio di depliant e qualche libro fotografico per ottenere un simile riconoscimento.
Percorso difficile e tanto lavoro da fare anche a Galatina, dove la basilica di Santa Caterina e i suoi affreschi cercano da tempo di entrare nell’olimpo delle meraviglie tutelate dall’Unesco. Uno degli sponsor più importanti, da quelle parti, è il critico d’arte Philippe Daverio, quello del papillon e degli occhiali alla Harry Potter. A chi gli chiede quale sia il luogo più straordinario d’Italia, lui risponde sempre che «è la chiesa di Santa Caterina d’Alessandria a Galatina».
Una sfida tra luoghi, dunque, che in fondo è anche una sfida tra uomini e donne. Perché se un giorno uno dei due monumenti sarà patrimonio dell’Umanità lo dovremo agli uomini e alle donne che avranno creato le condizioni necessarie per ottenere il riconoscimento.
Era marzo, era il 1383 e Raimondello Orsini del Balzo con le sue truppe intervenne in aiuto di papa Urbano VI, assediato a Nocera dai soldati di Carlo III. Grazie a quell’aiuto il pontefice riuscì a salvarsi e a imbarcarsi per trovare riparo a Genova. Non dimenticò il gesto nobile di Raimondello. Gli procurò una moglie, la contessa di Lecce Maria d’Enghien, e lo aiutò a costruire la basilica di Santa Caterina a Galatina. Stessa cosa, sostegno al cantiere, fece il suo successore Bonifacio IX, il primo e unico papa nato nel Salento, a Casarano. Nel 1391 Santa Caterina era già stata ultimata, ma i biografi narrano che a Maria D’Enghien non piacquero gli affreschi realizzati dagli artisti locali chiamati dal marito. E così, rimasta vedova, un bel giorno decise che andavano rifatti. Le volte e le pareti riaffrescate da artisti giunti da varie parti della penisola sono quelle che vediamo oggi, quelle che hanno fatto strabuzzare gli occhi a Daverio e che un giorno - si spera - convinceranno gli esperti dell’Unesco.
Anche il mosaico della cattedrale di Otranto è rimasto fino ad oggi così come lo ha pensato e realizzato il monaco di Casole. Ha resistito al tempo, all’incuria, agli zoccoli dei cavalli di Ahmet Pascià quando i turchi trasformarono la cattedrale in moschea (una parte) e ricovero per le bestie, e alle panche e agli scranni che nei secoli hanno accolto i fedeli.
Soffiava la tramontana in quella notte tra il 27 e il 28 luglio del 1480. Sull’Adriatico il vento che scende da Nord è sempre un problema, anche oggi quando costringe migliaia di bagnanti a migrare sulla costa jonica. Ahmet Pascià voleva dirigere le sue navi cariche di soldati e armi verso Brindisi, ma la flotta finì in quella che ora è conosciuta come la Baia dei Turchi, uno dei luoghi più belli della costa. Otranto fu presa una quindicina di giorni dopo, stremata da un assedio che non conobbe tregua, ma prima di avere la meglio sulle mura i turchi distrussero il monastero che aveva ospitato il monaco Pantaleone.
Nella cattedrale, il giorno dell’invasione, si erano rifugiati gli ultimi superstiti: donne, bambini, uomini e i preti guidati dal vescovo. I turchi non ebbero alcuna pietà e coprirono il mosaico col sangue degli otrantini. Ciò che accadde dopo, fino alla liberazione della città, è storia che tutti conoscono, forse non ancora scritta per intero. Se Otranto, con la sua cattedrale e il suo mosaico, sarà un giorno patrimonio dell’umanità lo dovrà anche a quel che accadde in quell’anno maledetto, che trova nella cripta la testimonianza dello sforzo immane fatto nel tentativo di salvare la città: i resti degli ottocento otrantini decapitati sul colle della Minerva. Del resto, per la stessa Unesco, Otranto è già simbolo di pace e dialogo tra culture diverse.
Il mosaico di Pantaleone è stato restaurato un bel po’ di anni fa. Sono in corso, invece, i lavori di restauro di una parte del soffitto. In attesa di interventi di restauro della facciata è la basilica di Santa Caterina, nel passato sicuramente più trascurata rispetto alla cattedrale otrantina. Gli affreschi, però, sono in buone condizioni e costituiscono ormai una delle mete più gettonate per i turisti che scelgono il Salento non soltanto per il mare.
Nell’aprile scorso un commando di miliziani dell’Isis ha attaccato i militari a guardia del monastero di Santa Caterina d’Alessandria in Egitto, ai piedi del monte Sinai. C’è stato pure un morto, ma il tempio per fortuna non è stato violato. È da lì che Raimondello Orsini portò con sé una reliquia, qualche anno prima che a Galatina cominciasse la costruzione della basilica. Narrano che il principe di Taranto e conte di Lecce fingendo di baciare il corpo mummificato della santa strappò un dito con i denti e lo nascose nella bocca finché non si sentì al sicuro. Era stato il clero a chiedere agli Orsini la costruzione di un tempio per celebrare il rito in latino, in una Galatina dove il rito greco era predominante. Dal piazzale della basilica, soprattutto nelle notti senza luna, si potevano scorgere verso Nord le fiammelle che ardevano sulla sommità di un’altra opera voluta da Raimondello. Era la guglia di Soleto, maestosa nella sua altezza e incantevole nelle sue decorazioni, finita di costruire nel 1397. Un po’ una sorta di “torre di Pisa salentina”, viso che a causa di un cedimento del sottosuolo pende leggermente verso sud. È conosciuta come il campanile di Soleto, ma non è stata realizzata per essere utilizzata come torre campanara.
Raimondello ne affidò la costruzione a Francesco Colaci da Surbo. La leggenda, invece, narra che la guglia sorse nell’arco di una sola notte, opera dei demoni che obbedivano a Matteo Tafuri, filosofo e medico nato nello stesso anno in cui Cristoforo Colombo raggiungeva le americhe, quasi un secolo dopo la fine dei lavori alla guglia di Soleto. Una leggenda che risale al periodo in cui il filosofo rientrò a Soleto per aprirvi una scuola, dopo aver girato Italia e Francia. In paese lo consideravano un personaggio strano, per via della fama di alchimista, una sorta di stregone. Malelingue, pettegolezzi che Matteo Tafuri conosceva e mal sopportava. Tanto che sull’architrave della porta di casa fece incidere queste parole che suonano come un avvertimento: “humile so et humiltà me basta. Dragon diventarò se alcun me tasta”. Della serie: “attenti, sono un tipo calmo ma se mi fate incazzare son cavoli vostri”.
Appena ventenne, Tafuri fu instradato agli studi umanistici dal monaco Sergio Stisio, che aveva studiato le lettere e la filosofia greche sui libri custoditi nell’abbazia di San Nicola di Casole. I soldati di Ahmet Pascià lì ci arrivarono qualche anno dopo e non certo per studiare. Pantaleone, il monaco dell’Albero della vita, invece, era stato lì tre secoli prima. Maria D’Enghien naturalmente conosceva Otranto e forse anche il mosaico di Pantaleone. Ma a lei piacevano gli affreschi di Santa Caterina e ne andava fiera. E così, sei secoli dopo, la sfida continua.
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