Tecnologia e lavoro: così
cambiano le nostre parole

Tecnologia e lavoro: così cambiano le nostre parole
di Claudia PRESICCE
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Sabato 22 Ottobre 2016, 22:07
Ogni lingua si declina in relazione al tempo e allo spazio in cui si muove: non si può riflettere sulla nostra evoluzione linguistica senza considerare una “geo-storia” dell’italiano. E poi, partendo da un lontano passato e arrivando al presente, si devono considerare i “nuovi spazi” in cui si muove la lingua oggi, cioè soprattutto web e social.
“Geo-storia della lingua italiana. Questioni, testi, didattica” (Progedit; 25 euro) di Trifone Gargano, docente di lingua e letteratura italiana negli istituti secondari e professore a contratto presso l’Università di Foggia di Didattica della lingua italiana, fa un excursus su vecchi e nuovi orizzonti dell’italiano.

Cominciamo dalla “geo storia della lingua italiana”: che cos’è?
«Ogni lingua, come tutti gli altri fenomeni umani, va studiata in relazione al suo tempo e al suo luogo e il concetto di geo-storia comprende questa dinamicità. L’italiano ha un lungo cammino alle spalle, ancora incompiuto, fatto delle tante “parlate” della penisola italiana, ed è notoriamente più vecchio rispetto al nostro Stato nato solo nel 1861. Una prima rassegna è quella di Dante nel “De vulgari eloquentia”. Il poeta esamina già allora quattordici dialetti, sette al di qua e sette al di là dell’Appennino, nella vana ricerca di un “volgare illustre” che però non trova. Riattraversando la storia delle parlate d’Italia si arriva poi alla proposta manzoniana vincente di adottare la lingua fiorentina dei parlanti di quel tempo, suggerita al Ministro dell’istruzione del tempo, ma parliamo qui di lingua letteraria. In realtà ciascun parlante comprende che il traguardo di una lingua nazionale popolare davvero è ancora davanti a noi, sia a livello parlato che scritto. Ci riconosciamo ancora molto nelle lingue regionali di provenienza, anche nella lingua scritta che pone gli stessi quesiti oggi che si pose già Verga per scrivere un romanzo verista che si leggesse da Catania a Milano. I pescatori di Aci Trezza non parlavano il toscano, ma il loro dialetto non si poteva usare perché non lo avrebbero compreso neanche a Messina. Oggi vale lo stesso discorso. È lunga e appassionante la storia di una lingua nazionale e popolare».

Facciamo qualche esempio in cui scorre la sua ricostruzione.
«La scommessa di questo libro è quella di incrociare anche la storia del pensiero sulla lingua italiana, cioè delle riflessioni grammaticali sul volgare. Alla seconda metà del 1400 risale una prima “grammatichetta” che non circolò perché non fu mai stampata, e al 1516 risale il primo volume stampato di grammatica ad opera di Fortunio: solo duecento anni dopo Dante si accettò che il volgare fosse degno di una riflessione su di esso, cioè di una grammatica scritta. A lungo ogni studio si era limitato solo al latino in cui uso era solo scritto. Invece non solo la lingua degli autori e dei libri va considerata, ma anche quella di tutti i giorni, compresi i cosiddetti “testi d’uso”, mercantili, notarili, esplicativi, o la lingua parlata dei predicatori che usavano sempre il volgare in uso e giammai il latino o l’italiano letterario. Quindi la costruzione della lingua non è stata esemplata solo sui testi classici, e questo va compreso bene anche oggi: le nostre università e le nostre scuole continuano a concentrarsi solo sulla lingua letteraria, trascurando i testi d’uso. E paradossalmente invece le indagini dell’Ocse Pisa e le prove Invalsi sono calibrate sui testi d’uso, non su quelli letterari. Da qui emergono le tante difficoltà dei nostri ragazzi che escono dalla scuola italiana incapaci di comprendere anche un semplice avviso delle vaccinazioni ad esempio. La nuova didattica dell’italiano nelle scuole e nelle università deve partire dalla considerazione dei testi d’uso, da un reclamo a una lettera commerciale, una richiesta di abbonamento ecc, e non solo dai testi d’autore».

L’insegnamento dell’italiano non può evitare poi nuovi binari, come la piattaforma digitale.
«La didattica dell’italiano deve essere sempre calata geo-storicamente, cioè nel nostro tempo e nel nostro luogo. Oggi il ruolo del testo digitale, letto tra smartphone, tablet e pc è preponderate, quindi, l’università prima di tutto, perché forma i futuri docenti, e la scuola poi, devono praticare queste nuove tipologie di scrittura per dare ai ragazzi la possibilità di possedere criticamente nuove competenze di scrittura e lettura. Leggere e scrivere utilizzando una tastiera e un monitor è molto diverso che farlo su un foglio di carta. Il Ministero ha avviato da qualche anno con grossi sforzi il cosiddetto progetto nazionale “Scuola digitale” per incentivare queste nuove competenze che sono la sfida dell’oggi. Ma tutti dobbiamo accettare che la nuova didattica della lingua italiana deve fare i conti con l’esistenza dei Tweet e dei post di Facebook che sono il nuovo stile di scrittura veloce e arguta, sentenziosa come nel passato erano distici, aforismi, sentenze e proverbi. La scuola non può star fuori e giudicare questi strumenti come banalità. Anzi, i ragazzi devono imparare a praticare questa scrittura a scuola. In fondo anche i pensieri di Leopardi sono dei tweet ante litteram, come i distici di Dante».
<USdefault>[NEROMARG]E insegnare competenze, va spiegato, non significa limitare le conoscenze.
<USdefault>[EMPTYTAG]«Certo, è questo l’equivoco di fondo. Il concetto di competenze prevede proprio l’abilità di una persona di trasferire nella propria vita quotidiana, lavorativa e non, quello che ha appreso a scuola. È il sapere che diventa abilità e competenza di vita. La scrittura arguta, e ben allenata magari sugli aforismi del passato, oggi diventa un post o un tweet intelligente, così un sapere antico e classico si trasferisce in un contesto futuro e moderno. Questa è la sfida da fare con i docenti prima e con i ragazzi poi, ed è anche la mia perché insegno sia all’università che nelle scuole superiori».
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