Omar Di Monopoli: «I romanzi sono vivi se fatti di visioni»

Omar Di Monopoli: «I romanzi sono vivi se fatti di visioni»
di Rossano ASTREMO
4 Minuti di Lettura
Domenica 25 Settembre 2016, 18:08
Negli ultimi anni si è conquistato un posto tra i nomi della narrativa italiana contemporanea. Il suo genere potremmo definirlo: giallo western. Omar Di Monopoli nei suoi romanzi (“Uomini e cani”, “Ferro e fuoco” e “La legge di Fonzi”) mostra l’altra faccia della Puglia, quella dove si consumano storie antiche di vendetta, criminalità, tra sangue e violenza.
Quando e perché hai iniziato a scrivere?
«Ho iniziato come fumettista. Ero un ottimo disegnatore e all’università cominciai a produrre alcune operette ciclostilate o fotocopiate che diffondevo con amici nell'ateneo bolognese, dove studiavo. Piano piano mi resi conto che mi divertivo di più a scriverle, quelle storie, che a disegnarle. Credevo di aver svoltato. Presto ho però capito che anche la scrittura sa essere estremamente faticosa... questa però è tutta un’altra faccenda».
Moravia, cascasse il mondo, era solito scrivere tutte le mattine. Tu hai un metodo rigido da rispettare o attendi nel caos della vita un’ispirazione?
«Non riesco a impormi una disciplina così rigida anche se i manuali di scrittura creativa consigliano di tenersi allenati costantemente, senza tregua. Certo è che per me tutto parte generalmente da una scena o da una suggestione, magari da un’immagine che mi s’imprime nella mente e che dà il là a una storia, il resto è però dura fatica al cesello, lavoro sulla sonorità delle parole, ricerca ossessiva del ritmo e persino taccuini affianco al letto per improvvise illuminazioni notturne, perché quando scrivo procedo come una macchina e non mi fermo mai».
Di cosa non puoi fare a meno mentre ti accingi alla scrittura? Hai qualche curiosità o aneddoto da raccontarci a riguardo?
«Quando mi accingo a scrivere un romanzo cerco tutte le volte di fare il professionista serio, tentando da bravo esperto di prepararmi gli schemini, le scalette e gli abbozzi dei personaggi come pare facciano i “grandi” della letteratura, ma poi puntualmente mando tutto a ramengo perché in realtà sono uno scrittore “visivo” e la mia impronta grafico/ fumettistica tende a voler visualizzare scena per scena lo svolgersi degli eventi, quindi il risultato deve stupire me stesso: è come se vedessi un film, una pellicola cui posso continuamente mettere mano: se dovessi seguire una scaletta predefinita sarebbe una noia incredibile».
Scrivere ha migliorato o peggiorato il tuo percorso di vita?
«Ho smesso da tempo di pormi simili quesiti, perché dopo il mio esordio del 2007 scrivere è diventato per me un lavoro, e come tutti i lavori certe volte ti dà splendide gratificazioni e altre volte delusioni terribili. Essere in grado di raccontare delle storie non migliora né peggiora la vita del suo autore, anzi, sono ormai più che certo che chi si ostina a incappare in questo fraintendimento non possa che fare male il proprio lavoro. La faccenda è: vuoi continuare a scrivere? Bene, fallo e cerca di farlo al tuo meglio. I risultati arriveranno e se non arrivano, beh, almeno sai di aver dato tutto te stesso...».
Domandone: Il libro che ami di più? E quello che non sei riuscito a finire?
«Sono un amante di tutti i generi (dal western alla fantascienza) ma guardo con grande trasporto (e mi attengo ad esso anche nella costruzione della mia personale prospettiva poetica) al southern-gothic, il tipico modo di fare letteratura nato e cresciuto nel sud degli stati uniti e reso immortale da gente come Faulkner in primis ma anche Erskine Caldwell, Truman Capote e Flannery O’Connor. Ammetto di non essere mai riuscito a finire la “Recherche” di Proust, né tantomeno “L’uomo senza qualità” di Musil (che tra l’altro è incompiuto, persino il suo autore non ce l’ha fatta!)».
Cosa ti piace e cosa non ti piace dell’editoria italiana?
«Personalmente ho scelto deliberatamente di starmene un po’ ai margini (anche fisicamente, non frequentando salotti letterari, reali o digitali che siano: non sono né su Twitter né su Facebook) perché quel che conta per me sono le Storie. Credo in questo momento ci siano autori meravigliosi e che finalmente gli italiani stiano uscendo da un certo provincialismo che a lungo ha caratterizzato la produzione nostrana. Il momento però, dal punto di vista del mercato, è quanto meno complicato, quindi è difficile dichiararsi ottimisti».
Gli e-book ormai stanno diventando una realtà importante nel mondo dei libri. Qual è il tuo rapporto con i libri digitali?
«Non sono certissimo che siano una parte così importante del panorama editoriale attuale. Mi pare abbiano contaminato il mercato senza però riuscire a penetrarlo o anche solo condizionarlo per davvero, almeno quaggiù in Italia. Stanno là, esistono e in parte funzionano. Ma non penso rappresentino una risorsa risolutiva. Comunque io sono aperto a tutto, quando il mio primo editore decisi di aprirsi al digitale, i miei titoli furono tra i più apprezzati in quella veste, quindi, ben vengano gli ebook».
Il prossimo libro a cui stai pensando o lavorando?
«Uscirà presto un nuovo romanzo ambientato nel Tarantino, sullo sfondo della malavitosa guerra fratricida che nei tardi Ottanta sconvolse l’entroterra ionico ad opera del clan dei Modeo. Un romanzo “western” molto duro e cruento che credo (e spero) farà rumore».
© RIPRODUZIONE RISERVATA