La Roma di Caravaggio
in mostra a palazzo Venezia

L'adorazione dei pastori di Pieter Paul Rubens
L'adorazione dei pastori di Pieter Paul Rubens
di Fabio Isman
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Mercoledì 16 Novembre 2011, 23:22 - Ultimo aggiornamento: 18 Novembre, 18:29
ROMA - Nel 1600, Roma celebra l’Anno santo; la Chiesa ha sconfitto la paura luterana; grazie ai grandi Papi del Cinquecento, e a Sisto V Peretti in particolare, la citt risorta, dopo il Sacco di 70 anni prima: quand’era precipitata a 30 mila abitanti. Nasce un astro, Caravaggio, e l’Urbe diventa la capitale culturale d’Europa: popolata da migliaia d’artisti che vengono da ogni dove. «Una fucina irripetibile», spiega la soprintendente Rossella Vodret. Lo racconta una mostra (a palazzo Venezia, da oggi al 5 febbraio): in 140 dipinti, per la prima volta, la «Roma al tempo di Caravaggio». Chi gli lavorava accanto, o in opposizione; 40 anni d’arte, e quattro papi: Clemente VIII Aldobrandini, Paolo V Borghese, Gregorio XIII Boncompagni e Urbano VIII Barberini; con i nobili e i cardinali, sono i massimi committenti al mondo.



A lungo convivono tradizione e sperimentalismo;
Alessandro Zuccari (suo è un recente «Caravaggio controluce», Skira) racconta: quando ci si misurava ancora con Michelangelo e Raffaello, con l’antico, il Merisi divampa; ogni suo quadro suscita dibattiti e sensazione. L’anno dopo i due dipinti a San Luigi dei Francesi, lo elogia in rima Marzio Milesi; nel 1603, ne scrive Karel van Mander; pur se Federico Zuccari, forse invidioso, non ci vede che «il pensiero di Giorgione». All’epoca, Roma era pervasa di rivalità. I principi erano Giovanni Baglione e Giuseppe Cesari, il Cavalier d’Arpino; ma Baglione si fa ben presto caravaggesco (basta guardare Amor sacro e amor profano, di Berlino e di Palazzo Barberini; o l’Estasi di San Francesco, di Santa Barbara, in California). Del resto, nei primi quadri del Merisi, come Il suonatore di liuto, Il riposo durante la fuga in Egitto, dice Claudio Strinati, si vedono ancora spartiti con musiche antiche di 50 anni; e si commerciavano «quadri antichi», ovvero della prima metà del Cinquecento. Proprio nell’Anno santo, Baglione lascia nella basilica Lateranense un affresco immenso, 5 metri per 4: ma pur con personalissimo stile, è ancora manierista; classico che più non si può. Quanto la Madonna di Loreto di Annibale Carracci (1605, Sant’Onofrio al Gianicolo; lei «vola» sulla casa), coeva di quella di Caravaggio a Sant’Agostino, con i piedi sporchi in primo piano: e il confronto, mai possibile finora, costituisce l’esordio dell’esposizione.



In quegli anni, a Roma lavorano in tanti. Spesso sparsi e ora troppo poco considerati; offuscati dal grande nome dei rivali. Per la prima volta, Vodret ne crea un percorso: anche Pieter Paul Rubens e Guido Reni risentono subito del clima. Altri nomi non sono meno celebri: da Domenichino a Francesco Albani, Giovanni Lanfranco, Guercino, per restare ai bolognesi che seguono Annibale; o a Orazio Gentileschi e Carlo Saraceni, per passare ai più stretti «caravaggeschi». E altri ancora, pur bravi e capaci, sono ormai assai meno noti, ma allora assai «gettonati»: i toscani Passignano e Fontebuoni, Ciampelli e Bilivert; Borgianni e gli spagnoli Maino e Tristan. Poi, arriveranno gli emuli del Merisi: da Manfredi ad Artemisia Gentileschi e Battistello Caracciolo; i francesi Simon Vouet, Jean de Boulogne detto Valentin, Nicolas Regnier (a Venezia, diventa Renieri e commercia); i fiamminghi, che si precipitano in massa nella capitale dei papi: da Gherardo delle Notti (Gerrit von Hontorst), fino a Seghers, Baburen, De Haan; si fa romano Jusepe de Ribera; e il Barocco, trionfante come la Chiesa vuole essere, è ormai alle porte: nascono ancora un’altra Roma, un’altra storia.



All’insegna sempre più spesso del naturalismo, della realtà messa in cornice, si passa da tenere e affettuose Madonne a Susanne con i loro vecchioni occhieggianti, a Maddalene in penitenza, a musici; a «effetti notte» che sono debitori di Caravaggio in modo spudorato; fino alla plastica resa della Chiesa che trionfa su Lutero, la monumentale Allegoria dell’Italia del 1629, creata da Valentin per i Barberini, proprio come Urbano VIII, loro «papa di casa», voleva: con i tempi che corrono, incarna lo spirito che ci vorrebbe per uscire dalle pastoie italiane anche di oggi. Con lui chiude la mostra, in cui l’allestimento di Pier Luigi Pizzi ricrea lo spirito grandioso e trionfante del tempo: è l’ultimo caravaggesco che muore a Roma, 1632. Ormai, la città ha mutato al mondo il calendario (nel 1582: dal 4 saltando al 15 ottobre); da ogni dove, si corre a San Pietro per ascoltare il Miserere di Domenico Allegri, che non poteva essere eseguito altrove, pena la scomunica. La città ha 109.729 abitanti. A metà secolo, finiva ancora a piazza Barberini: l’Oltretevere quasi disabitato, San Pietro escluso; attorno, nello spazio vuoto di anime, è la corona di vigne e ville che la renderanno famosa (ma un centinaio spariscono poco dopo l’Unità d’Italia); fuori, le paludi l’assediano, la malaria è alle porte: chi visita il Colosseo, per tutto l’Ottocento assume una dose di chinino preventiva. Ma al Giubileo del 1600, arrivano almeno un milione e 200 mila pellegrini, come se oggi quadruplicassero i turisti. E da allora per quasi mezzo secolo, tanti pittori: centinaia. Per la prima volta, li vedremo uno accanto all’altro: è una «carrellata» assai intrigante.
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