Veneziani: «Vi racconto il bello e il buono del popolo italiano»

Veneziani: «Vi racconto il bello e il buono del popolo italiano»
di Claudia PRESICCE
4 Minuti di Lettura
Giovedì 28 Aprile 2016, 10:44 - Ultimo aggiornamento: 10:45
«C’è un’italianità nascosta, sommersa, nel nostro Paese che va solo stimolata e potrebbe sorprenderci rispetto all’idea di disaffezione dilagante».
“Serata Italiana – Comizio d’amore” di, e con, Marcello Veneziani è la performance teatrale che questa sera alle 20 approda al Paisiello di Lecce (nel riquadro i dettagli dell’appuntamento), per una delle 100 tappe del tour che, da Aosta a Palermo, sta percorrendo l’Italia. Il giornalista scrittore mette in scena tutte le ragioni per aver voglia ancora di essere italiani: valori, memorie, peculiarità e capacità di cui, in un’epoca troppo veloce, non c’è più contezza.
Tutto parte dal suo ultimo libro “Lettera agli italiani” pubblicato da Marsilio nello scorso settembre.
«Sì, ho pensato di presentarlo in giro per l’Italia in una formula diversa, creando un monologo teatrale che ho chiamato “comizio d’amore”, con letture e video».
Veniamo ai temi trattati da libro e spettacolo.
«Si parte dalla considerazione che il senso dell’ italianità e dell’identità nazionale sia oggi in pericolo. Si fa infatti fatica ad avvertire l’appartenenza all’Italia, si vive male la condizione di italianità e quindi c’è una considerazione del disagio, della decadenza e del degrado del nostro Paese. Il tentativo qui però è di risalire, di cercare i germi di una rinascita per passare dalla decadenza ad una visione costruttiva: così propongo un viaggio tra passato e presente, tra il mito dell’Italia e la sua realtà, cercando di ravvisare le tracce dell’ originalità italiana. È un modo per ricordarci perché l’Italia è un paese originale, perché è una patria che non può finire, perché non basta riferirsi al patriottismo della Costituzione, ma bisogna rifondare un compiuto amor patrio. È un viaggio quindi alla ricerca di una memoria condivisa, ma anche di un progetto di italianità».
Chi sono gli “italieni” a cui si rivolge?
«Sono alieni, cioè italiani che hanno mutato le loro condizioni antropologiche e col tempo si sono trasformati. Su alcuni temi come la famiglia, la fede religiosa e politica, il rapporto con se stessi, hanno completamente cambiato atteggiamento e questa “mutazione antropologica”, come la chiamava Pasolini, io la identifico con l’espressione colorita di “alieni”».
Pasolini è richiamato anche dal titolo dei “Comizi d’amore”: perché questo riferimento? Ci sono tante differenze con la sua visione, quali sono le affinità?
«Quello a Pasolini è il riferimento ad un grande scrittore civile, ad un poeta animato da una grande passione civile. Qui trattiamo temi comuni, ma la sensibilità e lo svolgimento sono piuttosto diversi. Condivido con Pasolini la sua critica alla modernità, la sua nostalgia di un tempo animato da un fervore religioso e da un legame con la tradizione. Di contro non condivido le sue scelte politiche ideologiche, i suoi comportamenti di vita, la sua condanna di culture e sensibilità che secondo me attengono invece all’identità italiana. C’è un rapporto intenso con il pensiero e l’opera di Pasolini, ma c’è anche una soluzione divergente riguardo agli esiti».
Una dialettica che interesserà anche chi vede lo spettacolo da altre posizioni. E in questo senso molti si chiederanno se è uno spettacolo solo per italiani, o anche per gli stranieri che italiani vogliono “diventarlo”…
«Nasce per gli italiani e a loro soprattutto si rivolge, tuttavia affronta seppur superficialmente anche l’argomento dei migranti. Due sono le chiavi di lettura: le preoccupazioni e a volte lo sconcerto degli italiani nel confrontarsi con mondi diversi, l’altra apertura è agli immigrati che si integrano nel nostro Paese, che si sentono italiani e che lo sono ormai a tutti gli effetti. Non c’è una posizione preclusiva da parte mia, ma la chiara idea che per godere dei diritti e dei doveri degli italiani sia necessario sentirsi italiani. Ma non c’è né xenofobia, né xenofilia, né amore ideologico per i flussi migratori e né avversione ideologica. C’è la semplice considerazione che questi sono fatti che non vanno ignorati, ma governati».
La disaffezione diffusa all’italianità, dalla politica alla cultura, che ha tante cause, dove comincia secondo lei?
«Due sono gli elementi a mio avviso principali. L’oggettivo disagio di trovarsi in un paese dove non funziona niente, totalmente immerso nel presente e incapace di pensare al futuro, né al passato, e tanti elementi che costituiscono il nostro disagio contemporaneo. Poi c’è un’indole degli italiani a giudicare sempre il nostro Paese sull’orlo del collasso, sempre moribondo: io lo ricordo fin da bambino il “dove andremo a finire” come un tormentone. Nei secoli andati però c’era la stessa condizione, come una mentalità affettiva degli italiani che parlano sempre del loro paese come di una realtà abnorme, deforme, sbagliata. E dall’altra parte c’è un’oggettiva situazione di aggravamento della nostra condizione che produce anche crisi della creatività, il disconoscimento del merito e del talento. Se tutto è giocato sulla sfera del giorno non resta più niente, tutto diventa contingente e di passaggio, niente è duraturo. Se si toglie il riconoscimento del talento da una parte e dall’altro si punta solo su presente i risultati sono questi».
© RIPRODUZIONE RISERVATA