Lavorare gratis, lavorare tutti: la soluzione di De Masi

Lavorare gratis, lavorare tutti: la soluzione di De Masi
di Claudia PRESICCE
7 Minuti di Lettura
Sabato 27 Maggio 2017, 16:16 - Ultimo aggiornamento: 17:18
“Lavorare gratis, lavorare tutti”. Può sembrare uno slogan, in un certo senso lo è, ma certo non è un consiglio a regalare le proprie prestazioni lavorative. Semmai spinge ad inventarsi una protesta tutta nuova per invertire una situazione che, di fatto, vede l’Italia sprofondare nel baratro di una disoccupazione allarmante.
Il sociologo Domenico De Masi, promotore di questa soluzione creativa e autore del libro “Lavorare gratis, lavorare tutti. Perché il futuro è dei disoccupati” (Rizzoli; 18 euro), infila nel calderone dei “senza lavoro” anche l’infinita legione dei precari. Ma, se l’Istat fotografa un’Italia che ha smarrito le storiche classi sociali di canone novecentesco, il professore emerito dell’Università La Sapienza di Roma pensa che invece non molto sia cambiato, anzi, visto che, dice, «i poveri sono solo più poveri e i ricchi più ricchi».

Andiamo con ordine, professore, e cominciamo dall’idea lanciata nel libro: “Lavorare gratis, lavorare tutti”. Esattamente come si fa?
«In Italia si lavora mediamente 1800 ore all’anno circa. In Francia invece 1500 ore e in Germania 1400: quindi ogni italiano lavora in media 400 ore all’anno in più di un tedesco, e 300 ore più di un francese. Questo è il motivo per cui in Francia la disoccupazione è al 9% e in Germania al 4. Non c’entrano la flessibilità, né l’articolo 18, perché l’Italia ormai ha una normativa flessibile e un costo del lavoro nella media europea. Quindi i due motivi classici ai quali si imputa la disoccupazione italiana non esistono più, l’unica vera ragione è l’orario di lavoro, superiore agli altri paesi. Senza una riduzione dell’orario di lavoro, accanto ai 23 milioni di occupati, che lavorano 40 miliardi di ore all’anno, avremmo sempre 6 milioni di disoccupati e inoccupati. Se lavorassimo con l’orario francese avremmo circa 4 milioni di posti in più, con l’orario tedesco 7 milioni di lavoratori in più. Ecco il vero problema della disoccupazione in Italia. Bisogna chiedersi perché con l’aumento della tecnologia negli altri paesi l’orario sia stato ridotto, mentre da noi no. Detto questo, se ogni disoccupato togliesse un decimo di lavoro ad un occupato, si risolverebbe subito il problema: basterebbe togliere a ciascuno quattro ore alla settimana, portando l’orario da 40 a 36 ore”.

Il concetto comincia a chiarirsi e appare suggestivo. Ma non ne aveva parlato molti anni fa Bertinotti?
«Sì, e cadde un governo per questo motivo. Se lo avessimo ascoltato oggi avremmo la metà dei disoccupati».

Ma torniamo agli occupati che devono cedere le loro quattro ore lavorative ai disoccupati: come fare?
«Costringendoli. L’occupato non vuole cedere neanche una briciola del suo lavoro: i padri che, nei migliori casi, lavorano 8 ore al giorno hanno poi in casa il figlio disoccupato. Allora, secondo me, come i lavoratori occupati usano come strumento di protesta lo sciopero, così i lavoratori disoccupati per protesta debbono lavorare gratis. Ovviamente è solo una forma di protesta, come lo sciopero, che dura due o tre giorni, e che dovrebbero fare tutti i disoccupati insieme e gratis. Questo disintegrerebbe il mercato del lavoro e costringerebbe gli occupati e i loro sindacati a venire a patti con i disoccupati e a cedere loro un poco di lavoro».

In questo senso lei scrive che “il futuro è dei disoccupati”?
«Sì, perché sono quelli più capaci di gestire i mutamenti del tempo che dipendono da due cause: tecnologie e globalizzazione. Più crescono questi fattori, più produciamo beni e servizi con meno lavoro umano. Quindi, o superlavorano in pochi o lavorano meno in tanti: e più tempo libero per tutti significa anche più consumi e dunque economia che cresce».

Allora, questa lettura mostra che i disoccupati devono risolvere da soli il loro problema, nessuno se ne occupa.
«C’è un motivo. Nel 2001 quando era primo ministro Berlusconi e ministro del lavoro Maroni gli occupati in Italia erano 57,1 per cento. Oggi a 17 anni di distanza, con Gentiloni e Poletti, sono il 57,1 per cento, lo stesso identico numero di allora. Nel frattempo però abbiamo fatto: legge Biagi, Jobs Act, 80 euro a testa, abbiamo abolito Irap e Articolo 18, abbiamo reso flessibile il lavoro, ma siamo sempre allo stesso punto. Tanti talk show, scontri e dibattiti, ma il risultato vero è mancato. Allora io, da intellettuale, propongo una soluzione diversa che, attenzione, comprende anche tutti i lavoratori precari, perché i contratti a tempo indeterminato si sono ridotti ancora. Va infatti spiegato che gli ultimi nati con il Jobs Act, hanno fruttato sussidi agli imprenditori e, due anni dopo, grazie all’abolizione dell’Articolo 18 sono diventati licenziamenti».

E rispetto alla sua teoria affascinante della “società dell’ozio”, a che punto siamo?
«La società dell’ozio è nella realtà. Nel 1891 eravamo 30 milioni di italiani e lavoravamo 70 miliardi di ore, cento anni dopo nel 1991 eravamo 60 milioni e lavoravamo 60 miliardi di ore, mentre oggi siamo 61 milioni di italiani e lavoriamo 40 miliardi di ore: siamo sempre di più, lavoriamo sempre di meno e produciamo 23 volte di più di cento anni fa. Allora usavamo zappa, falce e martello, mentre oggi grazie al computer siamo più produttivi, e abbiamo più tempo libero. Un giovane di 25 anni oggi ha davanti a sé 580mila ore di vita, di cui almeno 220mila ore di totale tempo libero».

Sempre se lo trova, il lavoro. Altrimenti il tempo libero cresce…
«Certo, considero il caso limite dell’occupato dai 25 ai 65 anni. I nostri trisavoli comunque vivevano 300mila ore e lavoravano 150mila ore, mentre noi viviamo 700mila ore e, nei casi migliori, lavoriamo 80mila ore. Sembrano concetti rivoluzionari o strani, ma solo perché non si conoscono i dati né la storia».

Guardando i dati Istat pubblicati nei giorni scorsi, sui cambiamenti sociali, si parla di una classe media, un tempo spina dorsale del paese, vaporizzata e disgregata, e della scomparsa delle classi sociali novecentesche.
«L’Istat è come l’Osservatore Romano o il Censis: ci dice cose che già sappiamo. Che i disoccupati sono il 12 per cento lo sapevamo già. Io vedo che i poveri sono più poveri e i ricchi più ricchi, con una distanza in proporzione superiore a quella che c’era nel Medioevo. E le classi sociali, mai come oggi, sono vive, ma non si può dire. In Italia 10 famiglie hanno la ricchezza di 6 milioni di italiani: ecco quindi compattate classe dominante e classe dominata. Dov’è la frammentazione?».

Manca però il conflitto sociale come si manifestava negli anni ‘70: dov’è finito?
«L’unica differenza è questa, che nessuno si incazza più. E lo deve chiedere ai precari perché, io i libri incazzati li scrivo e rischio in prima persona. Essendo un mondo di conservatori rischia molto chi si espone e chi si arrabbia…».

Nel libro lei parla di “docce scozzesi”, cioè piccoli contrattini e contentini a pioggia che tengono buone le masse precarie, e le rimbambiscono forse…
«Certo, e io che ho una figlia di 50 anni da poco disoccupata so che cosa vuol dire sapere che non troverà mai più lavoro. Il libro lo dedico col cuore a questa classe dei precari, che è la più colpita, perché se si adottasse l’orario francese o tedesco loro verrebbero tutti assunti. Neanche il sindacato se ne occupa, perché tutela gli occupati, che invece non verrebbero affatto toccati. Non capiscono che riducendo il lavoro aumenta la produttività non diminuisce, e lo stipendio degli occupati non verrebbe minimamente toccato. In Germania lo hanno capito e realizzato da tempo, noi fingiamo di non saperlo. L’Italia però ha i più ignobili imprenditori d’Europa, i più stupidi: il vero problema non sono i giovani, né i lavoratori e né i sindacati, ma gli imprenditori».

Il presidente dell’Istat dice che solo in Italia è significativo il fenomeno dei “Neet”, i giovani tra i 18 e 29 anni che non studiano, non lavorano e restano in famiglia: è vero?
«In Germania e nel resto d’Europa ci sono il doppio dei giovani universitari italiani, perché hanno dato incentivi per iscriversi all’università. Questo significa anche che nei dati della disoccupazione questi ragazzi non sono conteggiati e quindi risultano meno disoccupati. In Germania, anche per questo, hanno abolito le tasse per il primo triennio, anche agli stranieri, pur avendo il doppio degli iscritti degli italiani. Noi invece in Italia che cosa abbiamo fatto con le università? Abbiamo introdotto il numero chiuso. È una cosa da pazzi, o no?».
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