L’addio al cantore della bellezza del Mediterraneo

Foto: Danilo De Marco
Foto: Danilo De Marco
di Stefano CRISTANTE
5 Minuti di Lettura
Sabato 4 Febbraio 2017, 12:20
l nome di Predrag Matvejvic forse non suonerà familiare a tutti. Era un pensatore originale e un grande scrittore, nato a Mostar (Bosnia) nel 1932 e morto l’altro ieri a Zagabria (Croazia): indico queste due città dell’ex Jugoslavia perché Matvejevic si sentiva profondamente jugoslavo.
Eppure non amava il regime titoista, da cui fu alternativamente vezzeggiato e perseguitato. La guerra di tutti contro tutti distrusse poi la federazione, e il clima rovente dell’epoca lo spinse a migrare in Francia e poi in Italia, dove insegnò alla Sorbona e alla Sapienza. A Zagabria insegnava letteratura francese, a Roma, dove il soggiorno durò fino al 2008, letteratura slava. Il suo maggiore successo è un sempreverde, cioè un libro continuamente ristampato, preludio al convertirsi in “classico”, e si intitola Breviario Mediterrane.
Uscì per la prima volta nel 1987, e colpì subito i più raffinati intellettuali mitteleuropei - a cominciare da Claudio Magris - stupiti dal fascino del suo viaggio dentro una scrittura inaspettata, evocativa, piena di riferimenti a una memoria comune, marina e terrestre. Matvejevic era convinto che le città del Mediterraneo rappresentassero una forma di bellezza e di comunicazione inarrivabile, e ha speso la sua intera vita a dimostrare che la cultura mediterranea esiste non solo per i suoi apici sapienziali (Omero, Dante, Rimbaud, Cervantes) ma anche e soprattutto nella comune disposizione dei porti, nell’urbanistica dei centri storici, nella ripetuta polifonia dei cibi e di uno in particolare, il pane. Matvejevic intitolò Pane nostro (2010) un bel libro alla ricerca dei diversi tipi di panificazione presenti nel Mediterraneo: era capace di investigare oggetti della vita di tutti i giorni e di cominciare ad analizzarli, a raggrupparli, a vederne le connessioni anche a centinaia di chilometri di distanza (il pane pugliese e il pane di Algeri) e infine a intervenire sugli aspetti simbolici che fanno delle nostre cose quotidiane un’immagine di noi e dei nostri sentimenti.
Scrisse che Aleksandr Solzenicyn, conosciuto nell’esilio di entrambi dalla madrepatria, gli confessò che ogni notte, da quando era stato liberato dal gulag sovietico, metteva un filone di pane comune sotto il cuscino. Disporre del pane è disporre della vita: uscita dal bisogno ed energia possibile per tutti. Alla ricerca del pane mediterraneo Matvejevic associava la necessità di viaggiare: è stato un esule e per un ventennio è diventato un apolide. Parlare con lui era un’esperienza speciale: padroneggiava molte lingue fin dall’infanzia (padre di origine russa e madre bosniaca), e nel suo modo di esprimersi in italiano inseriva quasi senza accorgersene parole francesi e croate, greche e spagnole. Ne usciva una lingua parente dei portolani e delle mappe dei naviganti del passato, a lui molto cari, come si può notare dalle illustrazioni inserite nei suoi libri, spesso antiche e in alcuni casi da lui rinvenute in archivi e biblioteche periferici.
La sua passione per la civilizzazione mediterranea lo trascinava a studiare gli intrecci tra culture invece che i conflitti bellici o le guerre economiche: per Matvejevic riconoscere nel Mediterraneo l’ambito di evoluzione dell’uomo antico in uomo moderno implica un’etica e una visione geo-politica, rispetto per ogni cultura e ripudio dei nazionalismi. Le piccole e grandi fratture di una stessa comune personalità geo-politica hanno prodotto ingiustizie e ineguaglianze, che non possono essere sanate dalla violenza di un comando autoritario. Predrag parlava di “democrature”, una crasi tra democrazia e dittatura. Scrisse che il destino dei paesi dell’Est che furono socialisti e che ora sono dominati da una classe politica spesso aggressiva e nazionalista potrebbe riverberarsi anche in Occidente. Studiando la storia delle città istriane, di Genova, di Nizza, di Napoli, di Salonicco e di altre cento, Matvejevic avverte che la dominazione di una casta sulla società genera risentimento e rancore, per sopravvivere ai quali i capi si fanno demagoghi. L’intellettuale jugoslavo non ebbe paura della dittatura: a Tito scrisse, qualche anno prima della sua morte, che doveva lasciare la politica attiva se voleva salvare la Jugoslavia, ed ebbe parole di fuoco contro il serbo Milosevic, il croato Tudjman e il bosniaco Izetbegovic, a suo modo tutti rappresentanti un’identità balcanica stordita dalla modernità e incapace di affrontare razionalmente la crisi del socialismo e dunque convertitisi in semplici tiranni. Ma l’Occidente non aveva di che gioire: l’accademico Matvejevic fu accolto da esule in grandi università europee e premiato con prestigiosi riconoscimenti, ma il suo sorriso non perse una certa amarezza di apolide.
L’Occidente ha ispirato, più o meno sotterraneamente, tutti gli episodi di barbarie commessi nel corso delle guerre inter-mediterranee, e la sua natura di sistema e strumento della circolazione delle merci e della produzione di profitto non si accoppia facilmente alla democrazia e alla comunità di sapere. Breviario mediterraneo, tradotto in più di venti lingue, ha tracciato una strada possibile, dall’emozione della sopravvivenza (il “miracolo” della nascita di Venezia, per esempio, con la terra letteralmente strappata alla laguna) alla gratitudine verso artisti e artigiani noti o sconosciuti che hanno fatto grandi e prospere le città di mare. Il paradigma di Predrag era una “comunità immaginata” a epicentro marino, un mare che lo scrittore guardava nei suoi ultimi giorni come un abisso che inghiotte disperati uomini in fuga, ma che nei suoi racconti era la madre primigenia che si avvertiva anche a decine di chilometri di distanza, e che chiedeva di essere scoperta, sfidata, temuta e amata. Sulle vie di quella distesa d’acqua si è spesa tutta la vita di Predrag Matvejevic: ho avuto la fortuna di incontrarlo più volte e più volte parlargli. Era come ascoltare un amico marinaio che cominciasse a raccontare una storia a Dubrovnik e ne aggiungesse un pezzo a Corfù in un nuovo incontro, e poi un altro passeggiando per la riva degli Schiavoni di Venezia, e poi ancora a Marsiglia e a Barcellona. Non c’erano timidezze con questo grande intellettuale: ti guardava interessato e chiedeva di dov’eri e il rapporto era avviato, per continuare per telefono o per lettera.
Negli ultimi mesi era molto stanco e malato, nella sua Zagabria, dove era ritornato a vivere dopo la lunga parentesi a Roma. La sua attività di ricerca era interpretata con entusiasmo ed empatia verso i racconti dei luoghi, che nella sua scrittura diventavano macchine per una narrazione infinita. Nelle ultime tre righe di un suo libro del 2003 (L’altra Venezia) c’è la sua ultima raccomandazione all’Europa, grande cruccio della sua mente. Scrive: “Europa, non cercare te stessa nell’ombra del mondo. Il mondo sei tu al modo tuo. Non dimenticare il mare che ti ha cullato, il Mediterraneo”.


 
© RIPRODUZIONE RISERVATA