Il castello di Otranto tra paura e bellezza

Il castello di Otranto tra paura e bellezza
di Anita Preti
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Domenica 30 Agosto 2015, 12:01
Due parole a confronto: paura e bellezza. Si fronteggiano questa sera in quella cittadina adriatica che, nella sua interezza, rende omaggio, attraverso un convegno, a un eccentrico letterato inglese di inizio Settecento autore di “Il castello di Otranto”. Il libro è al centro dell’attenzione di tanti studiosi, guidati da Luigi Ballerini, docente dell’Ucla, il prestigioso ateneo di Los Angeles.



La bellezza, del confronto, è quella di Otranto, innegabile, da manualistica del paesaggio. La paura è quella che filtra fra le pagine del romanzo di Walpole nell’edizione Bompiani, un testo ancora oggi molto letto da chi preferisce i classici all’effimero nudo di tanta narrativa contemporanea.



La paura è ormai una componente primaria della vita, non solo degli italiani. A volte ha ragione d’essere, altre volte è una bugia della mente. A volte è perniciosa, a volte salutare perché stimola il coraggio, l’azione. Ma avere paura della pagina scritta è qualcosa di talmente irrazionale che si stenta a crederlo. Eppure la fortuna di tutti i generi letterari che circumnavigano la paura è sostentamento primario per l’editoria internazionale. Eppure, di nuovo, a confortare la tesi del bisogno di paura, ci sarebbero pur sempre le fiabe, un coacervo di pulsazioni negative ed emozioni consolatorie; palma d’oro ai fratelli Grimm, gli altri favolisti non sono da meno. Poiché i bambini ipertecnologici le fiabe non le maneggiano più e tantomeno ci sono pazienti genitori o disponibili nonni a tener desta la narrazione orale, il primo approccio con la fantapaura quei bambini lo avranno in età adolescenziale quando, complice il grande schermo, incontreranno la saga di “Twilight”, e credendosi chi Bella, chi Edward, faranno conoscenza con la vampirologia moderna. Se per caso poi diventassero dei cinefili, da Friedrich Wilhelm Murnau, dagli albori del Novecento fino ad oggi avrebbero a disposizione chilometri di pellicola.



Walpole non si occupa di vampiri, ma le atmosfere gotiche in cui immerge le vicende de “Il castello di Otranto” (Isabella dovrebbe sposare Corrado, figlio di Manfredi, il padrone di casa, ed invece sposa il presunto contadino Teodoro) possono fare di lui, come è stato, accreditandogli il titolo, il padre del romanzo gotico.



Basta inoltrarsi in wikipedia per trovare i dati essenziali del lavoro di Walpole, da cui muoversi verso il ginepraio di personaggi e azioni: “Il Castello di Otranto. Una storia. Tradotto da William Marshal, gent. dall’originale italiano di Onuphrio Muralto, vescovo della Chiesa di San Nicola di Otranto”), Londra 1764. Ora: non è mai esistito un William Marshal e neppure un Onuphrio Muralto. L’unica cosa vera, dunque, nel frontespizio della prima edizione è che ad Otranto c’è un castello, possente e bello come la città, e lo si può dire adesso che è contenitore di cultura e quindi di pace, dopo aver spartito i suoi secoli con normanni, aragonesi, spagnoli e chissà quanti prima e quanti dopo nella sua millenaria storia. E, qualche chilometro più a nord, a Bari, c’è il quartier generale di San Nicola che compare sul finale del romanzo di Walpole a conclusione di una vicenda di amori, rivalità, inseguimenti, prigionie, liberazioni con contorno di: mani giganti che fendono l’aria, scheletri di passaggio, fantasmi, spade indipendenti dall’armatura, insomma tutto quell’armamentario che serve per alimentare la paura del lettore e consegnare a Walpole lo scettro di inventore del romanzo gotico, discendente diretto dal movimento culturale, artistico che confluirà nel romanticismo più sofferto, e progenitore di tutta la letteratura a venire: dal giallo al thriller.



Solo a un anno di distanza dalla prima edizione, Walpole firma il libro. Era il 1765. Sono dunque trascorsi quei 250 anni che hanno indotto l’amministrazione comunale di Otranto ad avviare le celebrazioni riassunte nell’odierno convegno.



Luigi Ballerini un intellettuale dalla curiosità poliedrica, spaziando dalla letteratura alla storia e cultura della cucina, coordina nella disanima del caso del conte Walpole (il castellano, da qui la competenza in tema di manieri, e collezionista di Orford, nel Suffolk, che inventò un mondo senza uscire dalla sua stanza) quattro docenti universitari: Nick Groom, Exter, Inghilterra (“Gotico cosa vuol dire?”); Claudia Corti, Firenze (“Il castello di Otranto”); Stefano Leonforte, Padova (“Il gotico e il cinema dell’orrore”). Resta infine nelle mani di Carole Viers, Los Angeles, quel che più farà palpitare i cuori degli astanti: il ricordo di Carmelo Bene che non solo in “Nostra Signori dei Turchi”, film girato ad Otranto e doverosamente al centro della trattazione odierna, ma in molta della sua opera non disse mai un “no” alle influenze del gotico. In ore di vigilia della Mostra del cinema di Venezia vale sempre la pena ricordare che quel film cadde come pece bollente sull’edizione del 1968 sia per i contenuti che per il fin troppo goliardico clima instaurato dagli “ussari” (li definirono così), gli amici di Carmelo, tra i quali il tarantino Cosimo Cinieri.
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