I colori e la parola. L'arte di Fernando De Filippi

I colori e la parola. L'arte di Fernando De Filippi
di di Marinilde GIANNANDREA
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Sabato 28 Febbraio 2015, 10:30 - Ultimo aggiornamento: 10:31
Hanno origine dalle onde e dalle vibrazioni del mare ma non nascondono la loro natura concettuale. I lavori degli anni Ottanta di Fernando De Filippi sono in mostra presso la Galleria “L’Osanna” di Nardò nella personale “Dal miraggio all’enigma” curata da Toti Carpentieri. Aprono con i silenzi del Mediterraneo un nuovo ciclo che segue quello degli anni Settanta, dell’identificazione con Lenin, delle trascrizioni del Capitale di Marx e delle affissioni pubbliche. Una produzione politica che è stata recentemente ricostruita da due mostre presso la Fondazione Mudima di Milano, la Labs Gallery di Bologna e da un importante catalogo edito da Prearo.

De Filippi, come si è svolta la sua formazione negli anni leccesi?

«Ho avuto la fortuna di poter frequentare l’Istituto d’Arte e la scuola media annessa. Qui preparavo i colori amalgamando i pigmenti di polveri con l’olio di lino crudo e una punta di olio di noce, li raccoglievo nei tubetti di dentifricio vuoti dei miei compagni. Era una scuola che in qualche modo riprendeva il concetto della bottega rinascimentale, dove l’apprendista cominciava con l’imparare a stemperare i colori. Ciò che ho appreso in quegli anni è stato fondamentale per i successivi sviluppi della mia carriera artistica. Ma nell’estate del 1959 ho deciso di partire. Con il ricavato delle vendite della mia prima mostra presso la Galleria del Sedile a Lecce (mostra voluta da Ennio Bonea, allora assessore alla cultura) ho acquistato una Lambretta e sono andato a Milano».

A Milano lei ha cominciato a lavorare in un periodo connotato da un deciso impegno e le recenti mostre hanno ricostruito proprio la sua attività degli anni Settanta.

«Gran parte del sistema dell’arte in quegli anni sembrava affetto da una sana follia. L’introduzione del fattore politico favoriva uno spostamento delle funzioni artistiche dalla produzione d’immagini all’utilizzo della parola come materiale sociale. L’arte è ideologia, arte dell’ideologia, arte nell’ideologia. L’equazione si riduce sempre a un gioco politico. Credevo e credo ancora che il modo corretto di lavorare per l’artista sia di avere una funzione critica, rivendicando una coscienza individuale, di trovare una strategia per opporre i valori della cultura come manifestazione autentica di essere e di sentire della collettività. Negli anni Settanta si è sviluppata, inoltre, la distinzione tra interno ed esterno, tra luoghi deputati all’arte e gli spazi pubblici. Si trattava di recuperare una forma di comunicazione più vasta servendosi di linguaggi differenti e il momento della rappresentazione diveniva la dimostrazione e la documentazione di una pratica utilizzabile fuori dalle gallerie e dai musei».

“L’Osanna” di Nardò propone i lavori della fase successiva, quella degli anni Ottanta, legati al mare e al Mediterraneo.

«Nel 1975 avevo scritto sulla sabbia i testi di Marx, dopo averli fotografati venivano cancellati dalle onde del mare. Smesse le vesti dell’agitatore sociale ho cominciato un ragionamento sull’arte. Un ragionamento sull’arte che mi ha riportato alla pittura riscoprendo un rapporto intimo con gli strumenti e i colori. Negli acquerelli in mostra il mare è il protagonista, con il vibrare dell’acqua e la sua inconsistenza di miraggio. In alcuni casi riaffiora la necessità della parola, ma solo come traccia e si risolve in un effetto ottico e visivo che riannoda un rapporto dinamico con il passato, mentre il mito comincia a diventare un bisogno necessario per spiegare e risolvere le contraddizioni della realtà e della natura».

Ha diretto per quasi vent’anni l’Accademia di Belle Arti di Brera. Quale posizione occupa la formazione accademica nello scenario artistico contemporaneo?

«Le Accademie, nate come luoghi di formazione avanzata, erano diventate nel tempo sinonimo di stabilità, di tutela della tradizione, assumendo una valenza negativa non solo nel settore della didattica ma della cultura in generale. Nell’ultimo ventennio, però, il termine Accademia è tornato ad acquistare un valore d’avanguardia, attraverso l’enunciato di scuola-laboratorio, operativa non solo sotto l’aspetto pratico, ma anche sotto quello teorico e scientifico. Oggi potrebbero essere il luogo in cui la testa e le mani lavorano insieme, dove coesistono teoria e prassi, spazi di ricerca e di applicazione di moderne metodologie formative, luoghi di vera elaborazione artistica e culturale».
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