De Filippi, come si è svolta la sua formazione negli anni leccesi?
«Ho avuto la fortuna di poter frequentare l’Istituto d’Arte e la scuola media annessa. Qui preparavo i colori amalgamando i pigmenti di polveri con l’olio di lino crudo e una punta di olio di noce, li raccoglievo nei tubetti di dentifricio vuoti dei miei compagni. Era una scuola che in qualche modo riprendeva il concetto della bottega rinascimentale, dove l’apprendista cominciava con l’imparare a stemperare i colori. Ciò che ho appreso in quegli anni è stato fondamentale per i successivi sviluppi della mia carriera artistica. Ma nell’estate del 1959 ho deciso di partire. Con il ricavato delle vendite della mia prima mostra presso la Galleria del Sedile a Lecce (mostra voluta da Ennio Bonea, allora assessore alla cultura) ho acquistato una Lambretta e sono andato a Milano».
A Milano lei ha cominciato a lavorare in un periodo connotato da un deciso impegno e le recenti mostre hanno ricostruito proprio la sua attività degli anni Settanta.
«Gran parte del sistema dell’arte in quegli anni sembrava affetto da una sana follia. L’introduzione del fattore politico favoriva uno spostamento delle funzioni artistiche dalla produzione d’immagini all’utilizzo della parola come materiale sociale. L’arte è ideologia, arte dell’ideologia, arte nell’ideologia. L’equazione si riduce sempre a un gioco politico. Credevo e credo ancora che il modo corretto di lavorare per l’artista sia di avere una funzione critica, rivendicando una coscienza individuale, di trovare una strategia per opporre i valori della cultura come manifestazione autentica di essere e di sentire della collettività. Negli anni Settanta si è sviluppata, inoltre, la distinzione tra interno ed esterno, tra luoghi deputati all’arte e gli spazi pubblici. Si trattava di recuperare una forma di comunicazione più vasta servendosi di linguaggi differenti e il momento della rappresentazione diveniva la dimostrazione e la documentazione di una pratica utilizzabile fuori dalle gallerie e dai musei».
“L’Osanna” di Nardò propone i lavori della fase successiva, quella degli anni Ottanta, legati al mare e al Mediterraneo.
«Nel 1975 avevo scritto sulla sabbia i testi di Marx, dopo averli fotografati venivano cancellati dalle onde del mare. Smesse le vesti dell’agitatore sociale ho cominciato un ragionamento sull’arte. Un ragionamento sull’arte che mi ha riportato alla p
Ha diretto per quasi vent’anni l’Accademia di Belle Arti di Brera. Quale posizione occupa la formazione accademica nello scenario artistico contemporaneo?
«Le Accademie, nate come luoghi di formazione avanzata, erano diventate nel tempo sinonimo di stabilità, di tutela della tradizione, assumendo una valenza negativa non solo nel settore della didattica ma della cultura in generale. Nell’ultimo ventennio, però, il termine Accademia è tornato ad acquistare un valore d’avanguardia, attraverso l’enunciato di scuola-laboratorio, operativa non solo sotto l’aspetto pratico, ma anche sotto quello teorico e scientifico. Oggi potrebbero essere il luogo in cui la testa e le mani lavorano insieme, dove coesistono teoria e prassi, spazi di ricerca e di applicazione di moderne metodologie formative, luoghi di vera elaborazione artistica e culturale».