È nato il nipote mio: in quei tre chili scarsi il senso della vita

È nato il nipote mio: in quei tre chili scarsi il senso della vita
di Simona TOMA
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Domenica 3 Settembre 2017, 21:58 - Ultimo aggiornamento: 22:04

È nato la sera del 26 Agosto, che già questa è una cosa tutta speciale.
Sono arrivata all’ospedale così veloce che per la strada manco i piedi per terra ho poggiato e li ho trovati già tutti lì, intorno alla Vanessa, che la stavano facendo camminare su e giù per il corridoio per aiutarla con le contrazioni.
La processione del Santo pareva – dove andiamo andiamo, sempre circhi dobbiamo fare.
Emanuele che teneva la Vanessa e la Veronica che teneva lui e gli suggeriva le parole da dire: «Dille di stare tranquilla, andrà tutto bene, dille che è l’amore tuo…».
La Vanessa che – tra le contrazioni e il nervosismo che normalmente tiene nelle vene al posto del sangue – stava con i sensi girati: «Manco mo che sto partorendo sei capace di fare l’uomo, le parole te le deve suggerire tua sorella… Dove sta tua madre? Tua madre voglio!», stava gridando.
La zia Marietta, subito dopo: «Speriamo che non lo chiamano Oronzo, ché senò si ripete la stessa storia dell’Ada nostra, che l’hanno chiamata Addolorata per devozione alla Madonna…».
La zia trovava sempre il modo di fare la miscredente e il maestro Nino diceva sì con la testa, ché da quando l’ha conosciuta di pensieri suoi non ne tiene più.
La mamma li seguiva e sembrava che stesse ripetendo una parola con la bocca, sempre la stessa, senza parlare, come una ninna nanna muta.
Per ultimi, Gino e il papà della Vanessa che, all’apparenza, sembrava che non c’erano per quanto erano assenti, ma lo vedevi da come si dondolavano da un piede all’altro che si stavano mangiando l’anima da quanto erano preoccupati.
Il parto sembra una cosa di femmine, ma i sentimenti li scuote a tutti.
Quando sono nati i figli nostri, Gino mio non so per quante ore non aveva parlato e fissava il muro e chissà quale futuro stava vedendo là dentro.
Chissà se si era immaginato tutto questo, quel giorno che aveva cominciato a corteggiarmi davanti alla stazione di Lecce.
«Signora Ada, vieni, vieni per favore…» mi ha detto la Vanessa quando si è accorta di me. «Vieni ché il nipote tuo ti stava aspettando per nascere…». E neanche ha finito di parlare che una contrazione l’ha piegata in due che quasi gli cadeva di mano ad Emanuele.
Ma io ero già lì e me la sono presa tra le braccia e le ho detto: «Vanessa, non ti devi preoccupare di niente, la via la trova da solo…». E lei: «Una mamma come te voglio essere…», ha detto piano con la voce che si spaccava di dolore.
Mi è venuto da piangere: «Quello che so, te lo insegno…».
«Tu tutto sai, signora Ada…».
E sembrava che, in quel momento ci stavamo solo io e lei nella corsia dell’ospedale: lei piena del nipote mio, io piena di bellezza e futuro.
Ci ha riportato dentro la corsia dell’ospedale il rumore di Emanuele che vomitava per la tensione. Gino stava bestemmiando: «Sempre figure mi devi far fare, pure il giorno che nasce il figlio tuo…». Ma poi si è piegato a raccoglierlo e gli ha dato un abbraccio di padre.
Questo figlio stava ancora dentro alla mamma sua, ma già stava facendo succedere i miracoli.
Intanto l’infermiera si è portata via la Vanessa sulla sedia a rotelle e lei, salutandoci con la manina, ché si era fatta di nuovo bambina davanti all’immensità di essere madre, ha detto: «Emanuele, torniamo subito…». Si è accarezzata la pancia di marmo e ha sorriso al figlio mio, e io ho capito che sarebbe stata una brava mamma anche senza di me.
«Meh, mo sedetevi tutti e tranquillizzatevi!», gli ho ordinato a quell’esercito di scalmanati che è la famiglia mia.
E siccome io non tenevo nessuna Settimana Enigmistica da fare e, comunque, stavo troppo agitata per indovinare qualunque “tredici verticale di sette lettere: famose cascate americane”, mi sono messa a passare in rassegna tutte le scritte sui muri della sala d’attesa: “Benvenuto Gieson”, “Buona vita Kevin”, “Sciantal nel cuore mio per sempre” e ho pensato che queste scritte sarebbero diventate tatuaggi, come la moda di mo che ti scrivi queste fesserie sulla pelle, come quel debosciato del figlio mio.
Che io dico, no? Ma questi vi sembrano nomi da cristiani? Nomi da dare a un figlio? Sono così belli i nomi antichi, chessò, Pietro, Alberto, Enrico, Tommaso, Edoardo, anche se noi forse siamo troppo morti di fame per chiamare un figlio Edoardo.
Il nipote mio… Me lo stavo immaginando, come che mi stavo guardando una cosa alla televisione proprio, con le guance grosse, tutto pieno di pieghe e carne morbida che gli usciva da tutte le parti, profumato di pasticciotto e latte di mandorla e con il carattere bello come quello della Veronica.
Tutto gli volevo insegnare, tutte le cose belle della vita, e provare a nasconderlo da quelle brutte, dalle cattiverie, le invidie, nonna lupa mi sarei fatta. Tutti i sapori doveva assaggiare, tutti i colori doveva vedere, tutti i fatti gli dovevo raccontare, anche quello della commare Furmiculicchia.
E poi lo volevo libero, libero di essere chi gli diceva la testa sua, doveva studiare, doveva leggere, doveva diventare quello che papà mio, buonanima, voleva che diventavo io.
Poi, lo hanno cacciato fuori.
Stava dentro una specie di navicella spaziale, tutto pieno di rughe e rosso rosso in faccia, ma teneva, lui soltanto in quella stanza, una faccia di pace e serenità e muoveva le mani che le dita sembravano i petali di un fiorellino bello.
La bocca faceva certe smorfie di saluto: «Meh, mo sono arrivato pure io, regolatevi a quello che dovete fare!».
E io mi sono messa davanti all’incubatrice e ho pianto, finalmente, ho pianto perché avevo capito che da quel momento erano finiti i guai miei.
Mo, la verità vera, sapevo che i guai non se ne sarebbero andati e in quel posto avremmo continuato a prenderla, con rispetto parlando, ma i guai avrebbero avuto un sapore diverso, di gelato e borotalco e, a volte, di pannolini sporchi.
Quei tre chili scarsi nell’incubatrice erano già il senso della vita nostra.
Poi, ho sentito una forza leggera che si metteva tra me e Gino, che pure lui non riusciva a smettere di piangere: «Ada mia, tutto ti assomiglia, la stessa faccia da guerriero tiene…». Era la mamma mia che, subito dopo, ha preso la mano a Gino e gli ha detto: «Luigi lo devono chiamare, è un nome da persona buona…». Ha fatto il sorriso di chi, dopo anni, aveva, finalmente, trovato la pace sua.
Questa è la famiglia mia: altro non tengo, altro non voglio.
Grazie a tutti, di cuore.
 

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