Ho visto la neve di Auschwitz

Ho visto la neve di Auschwitz
di Valeria MINGOLLA
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Mercoledì 1 Febbraio 2017, 14:39
Ho conosciuto la neve ad Auschwitz e lei m’ha spezzato il cuore. L’ho vista cadere, senza farsi male e senza chiedere scusa.
L’ho vista posarsi ai piedi degli alberi stanchi e su quei fragili rami perennemente rivolti verso un cielo che fatica ad aprirsi e che non vuole accoglierli.
L’ho vista soffocare i tetti dei blocchi, sbiadirne i colori, alterarne le geometrie.
L’ho vista addormentarsi lentamente sul reticolato elettrico e lì giacere indisturbata.
Ritraeva i miei contorni e le mie forme senza che glielo avessi chiesto. I suoi vuoti: i miei pieni.
S’insinuava tra i miei respiri irregolari. Mi inseguiva e se un poco, a volte, io esitavo e mi fermavo lei m’aspettava. Non c’era luogo in cui potessi nascondermi e in cui non potesse vedermi.

Era ovunque.
Ero io.
Mi guardavo, immobile, avvolta in decine e decine di strati di tessuto: avevo freddo e mi sentivo in colpa.
Ma, per quanto ci provassi e giuro che ci ho tanto provato, come potevo non percepirlo quel gelo? Come potevo impedire al mio corpo di tremare? Come facevo a scaldare le mani solo col fiato? Io, che sono solo una donna e vorrei essere di più ma sono solo questo. E non riuscivo a smettere di sentirmi in colpa.
Allora chiudevo gli occhi per non vedermi, per sentirmi sola, per punirmi, per avere paura.
Ma non ero sola mai.
Ogni cosa era ancora lì.
Ogni cosa è ancora lì.

Non si è mai potuta spostare e forse anche adesso, se pure potesse fuggire, sceglierebbe comunque di restare tra quegli alberi stanchi, tra i fragili rami, sui tetti dei blocchi, sul reticolato elettrico. Lì dove la puoi vedere. Lì dove la neve si posa, soffoca, sbiadisce, altera, s’addormenta e giace.
E io che continuo a guardare tutto questo, sempre immobile, sempre avvolta in decine e decine di strati di tessuto, cerco una maniera per chiedere scusa che fatico a trovare. E allora resto. Vado via ma mai del tutto.
Torno a casa ma sono ancora lì.
Per non dimenticare mai.
E mi ritrovo a chiedere aiuto a quella neve, non più sconosciuta, affinché continui a svuotare i miei pieni, ad insinuarsi tra i miei respiri irregolari, ad inseguirmi e ad aspettarmi.
Ho conosciuto la neve ad Auschwitz e io spero di non averle fatto troppo male.
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