Il figlio di Pino Indini: «Mio padre e Coco Lafungia, sarebbe giusto intitolargli una via»

Pino Indini
Pino Indini
di Massimiliano IAIA
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Domenica 21 Maggio 2017, 18:01 - Ultimo aggiornamento: 21:01
“...Acquesto punto devo fare come tutti i scrittori che si rispettono e ciovè ringraziare incerti personi imparticolari la quale mi hanno sospinto e coraggiato dicendomi che di questo passo vaffinire che vinco il premio Campicello o puramente la Bancaredda...”. Avrebbe meritato molto più di un semplice premio, certamente meriterebbe almeno una via, lo scrittore Pino Indini, il “papà” dell’indimenticabile Coco Lafungia, il personaggio protagonista di tanti racconti e di un’infinità di lettere che hanno fatto ridere migliaia di brindisini, con quell’italiano deformato e trasformato in un brindisino che cercava di darsi un tono. Senza scivolare nel dialetto. Ma mentre lo si racconta, si capisce che è impossibile definirlo davvero. Era, appunto, il “lafungiese”.
Ma era anche, e soprattutto, uno scrittore profondo, Indini. Era anche un poeta. Lo ricorda il figlio, Francesco, che a lui ha dedicato un sito - www.pinoindini.it, appunto - per chiedere, ad oltre dieci anni dalla scomparsa, l’intitolazione di una via, di una strada, tributo minimo ad un artista ingiustamente sottovalutato e forse anche snobbato dalla letteratura che conta.
Indini, suo padre si sentiva un po’ così?
«Papà lo diceva spesso: “Io sarò ricordato solo dopo la morte”. E ne soffriva molto, perché era davvero un grande scrittore. Amava la poesia, leggeva di tutto, conosceva a memoria “La Divina Commedia” e “I promessi sposi”. Negli ultimi giorni della sua vita era tracheostomizzato e non parlava più. Ma leggeva le poesie di Rainer Maria Rilke e muoveva il braccio con il palmo della mano rivolto verso l’alto per far capire che stava leggendo un capolavoro. Era un funzionario ospedaliero con mansioni di bibliotecario. Lavorava circondato da riviste mediche e a casa diceva: “Lì ci sono opere che costano una fortuna ed è tanto se passa un dottore al mese a consultarle”».
Quando nacque la sua passione per la scrittura?
«Praticamente da sempre. Faceva satira sin dai tempi del collegio, negli anni ‘50. Ma scriveva ovunque, appena trovava uno spazio si metteva in disparte e componeva».
Come nacque l’idea di Coco Lafungia?
«A metà degli anni Settanta, come rubrica sui giornali. Lo ricordò bene durante una cerimonia l’ex sindaco Domenico Mennitti, che di papà aveva grande stima. L’idea era quella di raccontare il punto di vista di un semplice contadino brindisino, per nulla erudito ma che cercava di rendersi comprensibile nelle lettere che mandava al fratello lontano, “migrato all’Australia”. Ne veniva fuori il brindisino medio, con i suoi pregi e i suoi difetti, i vizi e le virtù. Ciò che scriveva non erano forse atti di denuncia della città in cui viveva, ma sicuramente erano fatti realmente accaduti. “Il matrimonio del figlio” o “L’incontro di boxe” erano momenti di vita vissuta, raccontati magari con gli eccessi della scrittura satirica ma che comunque lasciavano anche spazio alla riflessione su ciò che eravamo».
Lettere effettivamente spassosissime.
«Coco Lafungia va letto, non raccontato. Ci sono parole che rendono solo una volta lette, come quando Coco Lafungia chiudeva dicendo al fratello “ti saluto morto, tanti fettuosi saluti”».
Però le sue opere hanno avuto un grande successo anche quando venivano rappresentate a teatro.
«E dire che non era facile ottenere il palco, lui che peraltro aveva speso fiumi d’inchiostro per raccontare le peripezie legate al teatro Verdi. Una volta si fece avanti persino una compagnia teatrale di Taranto».
Nelle sue prime pubblicazioni fu aiutato?
«Poco. Quasi sempre era lui ad autoprodursi. Poi iniziò a collaborare con Lionello Maci e alcuni libri furono pubblicati con “L’eco di Brindisi”. Dopo la morte ci sono state due pubblicazioni postume, una per un lavoro con l’associazione “Brindisi Cuore” e un’altra con la Hobos. Ricordo che ci fu anche un periodo in cui leggeva i suoi racconti in televisione su Trcb. Veniva a riprenderlo direttamente a casa, sulla sua poltrona, Gianmarco Di Napoli. E quegli spezzoni venivano spesso “mossi” perché chi filmava non riusciva a trattenere le risate».
Da figlio, come viveva il periodo delle fortunate pubblicazioni di suo padre?
«A me i suoi lavori sono sempre piaciuti. Anche al liceo “Fermi” che frequentavo, c’erano cerimonie in cui mi capitava di leggere i lavori di mio padre. Ma naturalmente si cercava di invitare lui, perché era molto più divertente. I docenti mi prendevano in disparte e mi dicevano: “Sai, la settimana prossima c’è quest’evento sulle tradizioni brindisine. Perché non chiedi al tuo papà se viene a leggerci qualcosa?”. Lui era contento. E poi, mi piaceva molto quando mi portava a San Pietro degli Schiavoni, o alle Sciabbiche. Era tutto un “Qui abitava...”, e per ciascuno c’era un aneddoto e un soprannome».
Suo padre non temette mai di finire schiacciato dal suo Coco Lafungia?
«Sì, infatti nel 1988 cercò anche di farlo morire. Fece affiggere i manifesti in città, si mise d’accordo proprio con le onoranze funebri. Sapete come finì? A casa ricevemmo pure le lettere di condoglianze. Credo che in quel momento papà capì veramente quanto i brindisini amassero Coco Lafungia».
Perché ha deciso di aprire un sito su suo padre?
«Perché credo che la sua memoria vada onorata, per due ragioni. Sia per l’uomo che era: estremamente buono, dava grande valore alla famiglia, e devo dire che da lui ho imparato ciò che cerco di trasmettere a mio figlio. E poi, c’è chiaramente lo scrittore: è morto nel 2006, eppure ancora non gli è stata dedicata nemmeno una via. Sul sito c’è anche una raccolta firme che voglio portare in Municipio. Sarebbe bello dedicargli, per esempio, lo spiazzo che c’è in Largo Guglielmo da Brindisi. Papà nacque lì e da bambino giocava in quella strada».
Nessun amministratore è mai stato in grado di assicurarle una strada per suo padre?
«Immediatamente dopo la sua morte, in tantissimi. Poi sono spariti tutti. Non si fa in tempo ad avere un incontro con un assessore, che è già cambiata la giunta. E questo avviene da diversi anni, ormai, non solo adesso».
Ha mai pensato a cosa suo padre avrebbe scritto oggi, della Brindisi di oggi? O del primo sindaco donna?
«Ci penso spesso. Lui era innamorato di Brindisi, avrebbe scritto ancora del teatro. Forse avrebbe criticato il ponte di via del Mare ma avrebbe speso parole di entusiasmo per il lungomare, chissà. Ma lui ne aveva per tutti. L’altro giorno sentivo in tv Macron e sicuramente Coco Lafungia avrebbe detto che in Francia aveva vinto “Maccarrone”».
Sulla lapide ha voluto che si scrivesse: “Dolce mi sia la morte, ed al suo arrivo io l’aspetti sereno come un bimbo che nasce a nuova vita”.
«Gliel’ho detto, era un poeta. Riconosciuto forse non qui, nemo propheta in patria. Su di lui hanno scritto tesi di laurea nell’ex Iugoslavia, i suoi racconti sono stati tradotti in cirillico, e una volta gli ha scritto persino Evtushenko. È vero, in fondo quel contadino semplice era un po’ mio padre. Ma, proprio come Collodi con Pinocchio, mio padre non è stato solo Coco Lafungia».
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