Drogati al volante, poi assolti
scoppia il caso delle analisi inutili

Drogati al volante, poi assolti scoppia il caso delle analisi inutili
di Roberta GRASSI
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Venerdì 14 Luglio 2017, 09:24 - Ultimo aggiornamento: 18:03
L’ultima assoluzione risale a ieri. Il fatto non sussiste, ha stabilito il giudice, per un imputato di guida in stato di alterazione da cannabinoidi. Dal processo non è emersa la certezza che il conducente non fosse drogato alla guida. Ma un altro dato insuperabile: il risultato dell’esame delle urine non è sufficiente per avere prova certa dell’assunzione di stupefacenti. La prova che serve a processo per giungere a una condanna. E’ un esame superficiale, eppure al momento è quello che viene sistematicamente disposto dai sanitari del 118 e dal personale Asl a seguito di controlli dei carabinieri.
Le assoluzioni sono all’ordine del giorno. Talvolta la formula è quella dubitativa che documenta l’insufficienza delle prove necessarie per giungere a una pronuncia di condanna. In altri casi c’è addirittura la formula piena. Il verdetto di ieri porta la firma del giudice Vincenzo Lanzillotta. L’imputato era difeso dall’avvocato Giuseppe Lanzillotti.
Già nel 2015 la questione era stata affrontata dal Tribunale in composizione monocratica, in un processo sorto come spesso accade da una opposizione al decreto penale di condanna.
“Come è noto – scriveva il giudice Genantonio Chiarelli in una sentenza passata in giudicato – per quanto fra l’altro emerso nel corso di altri processi analoghi trattati innanzi a questo magistrato, l’analisi delle urine eseguita in ospedale è un test di screening finalizzato soltanto a vedere la presenza in dette urine di tracce di sostanze stupefacenti che, nella sua veste di teste qualitativo, non consente alcuna indicazione sulla quantità di sostanza di cui si è fatto uso. Tale analisi, inoltre, non è in grado di fornire alcuna indicazione temporale su quando la sostanza eventualmente rinvenuta sia stata assunta”.
L’imputato in quel caso era difeso dall’avvocato Vito Melpignano. In ciascuna circostanza erano state presentate al Tribunale consulenze tecniche di parte in grado di dimostrare che, dalle tracce di cannabinoidi nelle urine, non vi fossero elementi per sostenere che la persona finita sotto inchiesta avesse assunto stupefacenti poco prima di mettersi alla guida e che quindi fosse al volante in stato di alterazione.
Altri analoghi provvedimenti sono stati emessi da altri giudici, sempre a Brindisi. I pm, a cui giungono notizie di reato in quantità rispetto a tale ipotesi di reato, avevano puntualmente chiesto la condanna.
 
La vulnerabilità dei procedimenti sta tutta nella tipologia di analisi somministrate, secondo i magistrati. Il che diviene ancor più grave, qualora non dovessero subito essere disposte le analisi del sangue, in caso di sinistri mortali. L’assunzione di droghe, infatti, porta alla contestazione del reato di omicidio stradale, che prevede pene più elevate rispetto all’omicidio colposo.
Proprio in occasione di un incidente stradale erano scattati i controlli che hanno portato al processo conclusosi nel 2015 con l’amara constatazione del giudice, poi ripresa in decine di altre sentenze dai colleghi del tribunale.
L’incidente era avvenuto nel centro abitato di Carovigno. Per fortuna nulla di grave, solo lesioni lievi. I carabinieri intervenuti per effettuare i rilievi, compiendo in modo impeccabile il proprio lavoro su strada, non avevano potuto fare a meno di notare che le due persone coinvolte, ognuna alla guida della propria vettura, erano particolarmente agitate: “gli occhi un po’ strani, stralunati”, c’era scritto nella relazione di servizio. Sono stati disposti gli esami tossicologici: uno dei due era risultato positivo all’uso di cannabinoidi.
“I fatti innanzi esposti non consentono di ritenere provata – è scritto nella sentenza – la penale responsabilità dell’imputato”. Così accade ormai spessissimo. Sempre per colpa dell’esame “sbaglia
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