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Turandot: l'incompiuta di Puccini festeggia 90 anni

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Lunedì 25 Aprile 2016, 17:31
“Penso ora per ora, minuto per minuto a Turandot e tutta la mia musica scritta ad ora mi pare una burletta e non mi piace più”: così scriveva nella primavera del 1924 Giacomo Puccini a Giuseppe Adami, autore, assieme a Renato, Simoni del libretto dell’opera. Ma la morte, che lo colse il 29 novembre 1924 a Bruxelles, non permise al compositore toscano di completare il suo ultimo capolavoro. E così Turandot rimase incompiuta, nonostante Puccini avesse portato con sé ventitré pagine di appunti, che poi furono utilizzati da Franco Alfano, incaricato da Arturo Toscanini per completare la scena finale. La prima venne fissata per il 25 aprile 1926 al Teatro alla Scala di Milano. Quel giorno, nel capoluogo lombardo, era presente anche Benito Mussolini e venne ovviamente invitato ad assistere a quell’evento così importante. Il Duce accettò, ma a condizione che fosse suonata “Giovinezza”, scontrandosi però con la fermezza di Toscanini che replicò: “Volete Giovinezza? Cercatevi un altro direttore”. Fortunatamente Mussolini non insistette e l’opera trionfò con le voci di Rosa Raisa, nella parte di Turandot, Maria Zamboni in quella di Liù e Miguel Fleta nel ruolo di Calaf. Quella sera, però, Toscanini diresse solo fino all’ultima battuta scritta da Puccini, la morte di Liù e, tra la commozione generale, depose la bacchetta rivolgendo al pubblico le parole profetiche attribuite alla stesso compositore: “Qui il Maestro è morto”. La sera dopo Turandot fu rappresentata con il finale di Alfano. La morte di Puccini segnò anche, come ricorda lo studioso Michele Girardi, “la fine di un certo modo di fare opera in Italia, quell’opera che stava morendo assediata da altri generi di spettacolo che le contendevano i favori del pubblico. Bisognava rinnovare tutto il sistema produttivo ed il rammarico che Puccini non abbia potuto vivere questa nuova fase è fortissimo. Anche perché proprio con Turandot Puccini aveva raggiunto un risultato prezioso: avvicinare l’opera italiana- contro l’alienazione contemporanea, la crisi post-bellica e le nascenti retoriche patriottarde- alla grande musica contemporanea europea".
E lo ha fatto lasciandoci in eredità un capolavoro dall’impianto musicale e melodico ricchissimo, con grandi affreschi corali ed una finezza di scrittura paragonabile soltanto a quella che potevano avere in quel periodo un Debussy o un Ravel. Senza dimenticare le celeberrime arie di Liù, a cui spetta il primato con tre brani (“Signora ascolta”, “Tanto amore” e “Tu che di gel sei cinta”), di Turandot (“In questa reggia”) e di Calaf, che canta “Non piangere Liù” e “Nessun dorma”
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che con quel famoso si naturale acuto sul “Vincerò” finale, che la tradizione ha voluto prolungato al massimo, è diventato l’emblema della potenza tenorile. E del grandissimo Pavarotti!    
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