Chapeau
di

La brutta sorpresa di ritrovarsi addormentati

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Mercoledì 30 Dicembre 2015, 16:39 - Ultimo aggiornamento: 18 Dicembre, 18:45
Forse quel prete è un eroe, forse svolge la sua missione concedendo spazi all’umorismo. Magari dissimula solo l’inquietudine. Comunque sia, la sua si candida a essere la migliore battuta dell’anno. Sembra una stravaganza, non essendo consono alla tonaca lo spirito di superbia, in una parola alterigia, e magari lo è davvero, stravaganza frammista a sana sfrontatezza. E insomma: chiedere all’ex parroco di Parabita don Angelo Corvo se ha paura del clan, soprattutto ora che sono pubblici i propositi di vendetta del boss di turno per il suo impegno in favore della verità, e in particolare della verità sull’uccisione di una bimba di due anni, e sentirsi rispondere che lo spaventa di più «svegliarsi alle 5 del mattino per la novena di Natale» è cosa che sola rinfranca lo spirito e ritempra le forze. Astenersi i militanti dell’“armiamoci e partite”. Punto numero uno. Gli altri argomenti, dopo la retata che nel Basso Salento ha smascherato i presunti intrecci tra politica e mafia, e tra mafia e mafia, seguono da sé (e “se”, ma senza accento, è la premessa necessaria: i ragionamenti successivi hanno fondamento a patto che le conclusioni investigative riflettano la realtà). Punto numero due: trent’anni e passa di storia criminale consolidano il passaggio dei vessilli del comando di padre in figlio. Si sospettava, in qualche caso si sapeva. E infatti il problema è un altro: da Parabita solo l’ultimo tassello di questa muta del territorio, che cambia pelle, cambia nomi ma conserva i cognomi accanto alle nuove leve che pure si affacciano. E già questo è pessimo indicatore: se la vicenda delinquenziale diventa saga familiare vuol dire che cresce il radicamento e con esso aumentano le implicazioni, i contatti e i rapporti, quindi la capacità di incidere su una porzione di territorio e di segnarne i destini. La forza di assoggettamento è uno dei criteri che qualificano l’associazione tipicamente mafiosa. Visto dall’altro versante, quello della società civile (e il problema in fondo è proprio questo), diminuisce la capacità di espellere il gruppo malavitoso come corpo estraneo. Le convivenze forzate e prolungate rischiano di trasformarsi per qualcuno, presto o tardi, in connivenze. E anzi lo diventano quando c’è comunanza di interessi. Altro punto. Tre: la conquista di consenso da tradurre in potere è l’inciampo su cui non di rado cadono i migliori propositi, se e quando presenti. Il coinvolgimento del vicesindaco di Parabita - finito in galera per concorso esterno in associazione mafiosa, il più suffragato alle Comunali dello scorso giugno, 480 voti, 113 in più sul secondo in lista - allarga il baratro in cui i magistrati collocano l’operazione di Ros e Dda denominata “Coltura”. Parole del pentito e colloqui intercettati sembrano non lasciare scampo ai coinvolti e allungano ombre sinistre anche su altri vertici istituzionali, tirati in ballo ma non indagati. Riflessi penali a parte, è evidente un altro problema più generale: reclutamento, selezione e formazione della classe politica. Lo scioglimento per condizionamento mafioso del consiglio comunale di Cellino (ora tornata al voto dopo il purgatorio) e le fibrillazioni di Squinzano sono esempi - senza dover arrivare a Roma - di difficoltà diffuse. Associate a una preoccupazione crescente. (Anche qui il risvolto. Visto dall’altro versante, si pone un problema di formazione delle nuove leve della criminalità, evidentemente digiune di social network: postare la foto in cui il presunto boss e il politico, assisi tronfi in poltrona, promuovono la candidatura di un amico alle Regionali o lasciarsi andare a inequivocabili commenti su Facebook dopo l’esito delle Comunali risponderà a criteri di trasparenza ma forse non a quelli dell’opportunità, per così dire). Quattro: i tanto sbandierati codici d’onore non esistono. Le consorterie di codici ne conoscono solo uno prima di incappare negli altri due, penale e di procedura penale: il potere per il potere e, giacché, per il denaro. Già l’uccisione il 20 marzo 1991 della piccola Angelica Pirtoli, suo malgrado testimone scomoda dell’eliminazione della madre Paola Rizzello, aveva dissipato i dubbi residui circa il rispetto riservato a donne e bambini. L’ultima inchiesta (rammentando il “se” iniziale) ora fa strame di un altro mito: l’intangibilità delle madri. Un affiliato, dicono le carte, avrebbe dato via libera al clan per l’eliminazione della mamma come pratica utile a colpire e punire il fratello, transitato nella schiera dei collaboratori di giustizia. Non se ne è fatto nulla, e per fortuna. Così come nulla è successo al pentito, destinatario al più di offese a spray circa la materia prima della propria costituzione molecolare. E questo porta all’ultimo punto. Cinque: la pericolosità dei clan. Ad arresti avvenuti, il procuratore aggiunto Antonio De Donno in conferenza è stato chiaro: «La criminalità organizzata esiste ancora, ma ha cambiato pelle e propende per il controllo del territorio con metodi meno eclatanti». Le ingenuità svelate dall’indagine non devono trarre in inganno: i parametri con cui giudicare le ultime generazioni in odor di Scu non sono nella potenza di fuoco del proprio apparato militare ma nella capacità di permeare istituzioni pubbliche, strutture economiche e attività sportive (dove accanto alle giovani promesse si alleva anche il consenso). L’ultima inchiesta impasta i vari ingredienti per servirli al vaglio del giudice. Non poco. Gli ulteriori accertamenti diranno di più. Resta da capire quale parte in commedia avranno questa volta disinteresse diffuso o peggio ancora vera e propria accettazione sociale delle logiche criminali e perverse, come evidenziato altrove da altre operazioni antimafia. Sicché ha ragione don Angelo: si ha più paura ad andare alle 5 del mattino alla novena di Natale. Per il timore, implicazioni religiose a parte, di trovare le coscienze irrimediabilmente assopite.
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