Bari: troppo cemento e poco verde. Il consumo del suolo è al 9,6%

Bari: troppo cemento e poco verde. Il consumo del suolo è al 9,6%
di Enrico FILOTICO
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Domenica 13 Marzo 2022, 05:00

Il tema ambientale è l’attualità sovrana di questo momento storico. Se in passato le politiche cittadine hanno potuto non porsi il problema dell’impatto che determinate scelte avrebbero potuto avere sull’ecosistema, ora è la natura stessa a orientare le scelte. Bari non fa naturalmente eccezione: il consumo del suolo al momento al 9,6% è uno dei parametri maggiormente attenzionati in vista dei prossimi interventi legati agli stanziamenti del Pnrr. Lo diceva nelle scorse settimane Magnisi, residente del quartiere Japigia: «L’occupazione del cemento rispetto agli spazi verdi di un tempo rappresenta un pericolo».

La situazione nella città metropolitana


Allo stato dell’arte, Bari è una città che si estende per una superficie pari a 386.265 ettari dei quali l’82,9% rientra nella classe “superfici agricole”, il 9,6% nella classe “suolo consumato” e il 10,6% nella classe dei “territori boscati” e degli “ambienti semi-naturali”.

In estate il valore di Lai, ovvero l’indice di area fogliare, era tra quelli più bassi stimati per le 14 città metropolitane, dato che è da attribuire alla tipologia di uso del suolo prevalentemente agricola. Nel Pnrr l’occupazione di suolo è stata messa al centro del capitolo dedicato all’ambiente. Le problematiche dell’inquinamento atmosferico e dell’effetto “Isola di Calore” sono infatti particolarmente evidenti proprio nei contesti urbani, dove il consumo di suolo è generalmente marcato e vi sono diverse fonti di inquinanti atmosferici. Nonostante la percentuale del capoluogo pugliese appaia molto bassa, Bari è la quinta città italiana per occupazione di suolo. Peggio solo Napoli, Milano, Venezia e Roma.


Le città, oggi, si devono muovere in un panorama davvero complesso e con scadenze sempre più impellenti. L’ambizioso obiettivo di azzerare il consumo netto di suolo comparso nel 2011 è stato definitivamente sancito dall’Ue nel 2013 con l’approvazione del “Settimo programma di azione per l’ambiente” (7° paa), fondato sull’obiettivo di riduzione dell’inquinamento alla fonte e sul principio “chi inquina paga”. Un tema che sullo scadere del 2021 era stato oggetto anche di una discussione in ateneo.

Per Giuseppe Mastronuzzi, Direttore del Dipartimento di scienze della Terra e Geoambientali dell’Università di Bari, «il consumo di suolo è al tempo stesso una forma di dissesto idrogeologico e di inquinamento. Cambiamenti climatici, pratiche agricole e urbanizzazioni estensive agiscono in maniera diversa ma con un risultato nel complesso drammatico – aveva detto lo scorso dicembre Mastronuzzi -. Se da una parte processi di urbanizzazione determinano la sottrazione di suolo attraverso la sua copertura, pratiche agricole devastanti quali la eliminazione di coperture vegetali naturali, lo spietramento e la polverizzazione espongono estese aree agli effetti del cambiamento climatico. E quest’ultimo determina un alternarsi di processi di disseccamento e di precipitazioni intense che, anche su superfici poco acclivi, inducono l’allontanamento di suolo con la sua irrimediabile perdita. Senza dimenticare che le coperture vegetali arboree ed arbustive costituiscono una delle prime difese verso l’aumento della concentrazione di Co2 in atmosfera».


Nella Missione 2 del Pnrr si legge proprio una denuncia di Ispra che ha voluto sottolineare i problemi che porterebbe questa crina. «È un costo complessivo compreso tra gli 81 e i 99 miliardi di euro, in pratica la metà del Pnrr, quello che l’Italia potrebbe essere costretta a sostenere a causa della perdita dei servizi ecosistemici dovuta al consumo di suolo tra il 2012 e il 2030. Se la velocità di copertura artificiale rimanesse quella di 2 mq al secondo registrata nel 2020 i danni costerebbero cari e non solo in termini economici – si legge nella nota dell’ istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale -. Dal 2012 ad oggi il suolo non ha potuto garantire la fornitura di 4 milioni e 155 mila quintali di prodotti agricoli, l’infiltrazione di oltre 360 milioni di metri cubi di acqua piovana e lo stoccaggio di quasi tre milioni di tonnellate di carbonio. A livello nazionale le colate di cemento non rallentano neanche nel 2020, nonostante i mesi di blocco di gran parte delle attività durante il lockdown, e ricoprono quasi 60 chilometri quadrati, impermeabilizzando ormai il 7,11% del territorio nazionale».
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