Effetto Grecia, il test di Tsipras scuote l’Europa e i suoi imitatori

di Stefano Cappellini
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Giovedì 22 Gennaio 2015, 22:26 - Ultimo aggiornamento: 25 Gennaio, 09:33
Due luoghi comuni accompagnano il dibattito sul voto politico previsto in Grecia nel fine settimana e sulle sue conseguenze in Europa e soprattutto in Italia. È utile spazzarli via entrambi prima di verificare se le urne confermeranno la prevista vittoria di Syriza, il movimento di sinistra guidato da Alexis Tsipras. Il primo luogo comune, per fortuna già indebolito da autorevoli e trasversali interventi, è quello che potremmo definire apocalittico. Dicono gli apocalittici: la vittoria di Tsipras è una minaccia non solo per la sopravvivenza della moneta unica europea ma addirittura per l'esistenza stessa dell'Unione.

Questa linea, propalata dalla Germania e dai suoi alleati continentali, ha un duplice vizio. Innanzitutto, travisa i contenuti della proposta di Tsipras, che non ha accenti anti-europeisti e non sostiene l'uscita della Grecia dall'euro bensì la rinegoziazione del debito: opzione discutibile finché si vuole ma non certo eretica o oltraggiosa come vorrebbero dipingerla i circoli dell’opinione dominante.



Peggio ancora, l’interpretazione apocalittica rafforza la visione oligarchica (leggi: filo-tedesca) della gestione della crisi, riaffermando il principio che l'esercizio della sovranità popolare vada subordinato al rispetto di dogmi (il rigore finanziario, le politiche di deflazione, gli squilibri strutturali tra Paesi creditori e debitori) spacciati per principi di equità e, addirittura, di superiore moralità. Respingere questa lettura è cruciale, dal punto di vista degli interessi nazionali e anche, se è consentita l’enfasi, della difesa di una democrazia reale e non formale.



Come ha dimostrato il deficitario bilancio del semestre di presidenza italiana, non è con dichiarazioni di intenti o con battaglie mediatiche che si scalfisce il blocco di potere germanocentrico. Né bastano i vecchi e retorici proclami europeisti nei quali era specializzata sinistra fu ulivista (le «prediche», le definirebbe Marine Le Pen), che per anni hanno immobilizzato l'azione italiana in un'accademia ricca di slogan («Serve più Europa») e povera di risultati. L'Italia è in una situazione diversa dalla Grecia e le differenze tra l'impostazione politica di Syriza e quella del governo Renzi fin troppo palesi, tuttavia la lezione che può arrivare da Atene dice che l'unico modo nel quale è possibile ricontrattare le regole della governance comune passano dal canale della legittimazione democratica.



Il consenso, ben costruito e ben speso, è l'unico terreno per riequilibrare rapporti di forza altrimenti blindati ai tavoli intergovernativi così come nelle aule e nei corridoi di Bruxelles ed è la sola vera arma di cui dispongono i paesi che di questa blindatura patiscono le conseguenze. Il secondo luogo comune, contrario e speculare al primo, è quello agitato dai cosiddetti importatori. Dicono gli importatori: la sinistra italiana deve diventare una succursale di Tsipras. Se i tedeschi diffidano i partner dal «fare come la Grecia», loro ribaltano il monito in un surreale «diventiamo la Grecia».



Non è che si ragiona su come alcune delle proposte di Syriza possano diventare patrimonio di una sinistra di governo.
No, si confondono agende, piani e interessi diversi e si vorrebbe trasformare Tsipras in un marchio politico, come è già accaduto alle scorse europee o in occasione di altre superficiali infatuazioni esterofile, come quella per il cosiddetto modello Zapatero. Orfani di una proposta politica propria – passaggio fondamentale per poter investire un consenso reale e forte nella ridiscussione delle regole - gli aspiranti concessionari del marchio Tsipras disegnano una Italia rassegnata a una politica in franchising, e di fatto su una linea non meno subalterna di quella in cui la vorrebbero confinata i custodi dell'ortodossia monetaria.